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Scheda pdf (182 KB)
Il tempo che ci rimane - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALES.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 21 aprile 2011 – Scheda n. 25 (837)

 

 

 

 

 

Il tempo che ci rimane

 

 

 

Titolo originale: The Time That Remains

 

Regia e sceneggiatura: Elia Suleiman

 

Fotografia: Marc-André Batigne. Montaggio: Véronique Lange.

 

Interpreti: Elia Suleiman (sé stesso, Elia Suleiman),

Saleh Bakri (la madre negli anni Settanta e Ottanta), Shafika Bajjali (la madre oggi),

Tarek Qubti (il vicino di casa), Zuhair Abu Hanna (E.S. da piccolo),

Ayman Espanioli (E.S. da adolescente).

 

Produzione: The Film. Distribuzione: Bim.

Durata: 109’. Origine: Palestina, 2009.

 

 

 

 

 

Elia Suleiman

 

Nato a Nazareth, in Israele, nel 1960, da una famiglia araba, Elia Suleiman tra il 1982 e il 1993 vive a New York e gira due cortometraggi subito notati dalla critica. Nel 1994 torna in patria per insegnare cinema vicino a Ramallah, la città sede dell’Autorità Palestinese, all’università di Birzeit, la più importante istituzione culturale palestinese. Nel 1996 dirige il primo lungometraggio, Cronaca di una sparizione, premio per la migliore opera prima a Venezia. È il secondo film a dargli una popolarità internazionale, Intervento divino (2002, visto al Cineforum), che vince il premio della giuria a Cannes. Suleiman è anche sceneggiatore e interprete delle sue opere. In Il tempo che ci rimane interpreta sé stesso.

Suleiman: «Il tempo che ci rimane è un film semi-autobiografico, in quattro episodi, su una famiglia, la mia famiglia, dal 1948 fino a tempi recenti. Il film è ispirato ai diari privati di mio padre, a partire da quando si è unito alla resistenza nel 1948, e alle lettere inviate da mia madre a membri della famiglia che furono costretti a lasciare il paese. Associando questi materiali ai miei ricordi intimi di tutti loro e del tempo trascorso insieme, nel film ho voluto ritrarre la vita quotidiana di quei palestinesi che decisero di restare e che furono etichettati come ‘arabi israeliani’, vivendo da stranieri nella loro stessa patria... I miei film traggono ispirazione dall’osservazione diretta della realtà. Porto sempre con me un taccuino in cui annoto piccoli dettagli di vita quotidiana, come il vento che lambisce un certo albero. Questo accumulo di annotazioni crea un terreno fertile su cui i miei film possono radicarsi. Ognuno dei miei film contiene temi diversi, ciascuno dei quali potrebbe dar vita a un film a sé stante. Mi rifiuto di ripetermi, di fare variazioni su un singolo tema. In un certo senso ciascun film ne contiene tre o quattro... Una volta scritta la sceneggiatura, mi ci sono voluti tre anni per trovare qualcuno che se la sentisse di finanziare il progetto. I produttori amano i miei film una volta finiti, ma trovare i finanziamenti è stata una vera avventura!... Se questo dovesse suscitare un interesse per la dimensione politica, lo spettatore potrà andare in libreria o in biblioteca – invece di guardare la Tv – e scoprire altro ancora sui personaggi che lo hanno commosso. Non c’è dubbio che la poesia sia universale. Ma oggi un altro fenomeno rafforza questo senso di familiarità con il mondo, seppure in modo illusorio e perverso. Parlo della globalizzazione. Nonostante questo, spero che l’approccio scelto per il film possa incoraggiare qualcuno a smetterla di pensare alla Palestina in modo feticistico e contribuire a scrollarmi di dosso l’etichetta di “regista palestinese”. Originariamente il film doveva essere ambientato in due luoghi diversi del mondo. Ma una volta terminato il lavoro di scrittura, mi sono reso conto che la storia avrebbe dovuto espandersi non orizzontalmente ma verticalmente, non superficialmente, ma in profondità... Quando scrivi, tendi a sentirti insicuro e a fare affidamento su un tema forte, su una storia con appigli forti e chiari a cui aggrapparsi. Ma poi ti rendi conto che correre dei rischi è parte integrante del processo creativo. La poesia nasce quando tremi. Puoi raggiungere o no quel momento, ma non puoi preparartici o provocarlo. Questo mi è stato molto chiaro quando ho girato la prima parte del film ambientata a Nazareth nel 1948... Quando davvero condividi un’esperienza di vita, una volta che entri nel territorio morale di altri, con la loro sofferenza, indipendentemente dal sesso e dalla nazionalità, ti rendi conto che si prova piacere non solo nell’essere sé stessi, ma anche nell’entrare nella pelle di altri, qualunque sia il colore di questa pelle. Si prova grande piacere nello sperimentare questa alterità. È allora che capisci che per essere libero devi essere un outsider. Dovunque ti trovi, è la condizione di outsider a renderti libero di comprendere e sentire gli altri. È in quel momento che la tua poesia diventa autentica e sincera... Credo che sia un film non da capire ma da sentire, un film da cui bisogna farsi coinvolgere emotivamente. Quando l’ho visto, io stesso sono stato profondamente commosso dalle scene in cui tutta la famiglia è riunita in cucina. C’è il ricordo di cose perdute per sempre, un che di proustiano. La cucina mi rammenta qualcosa che a sua volta mi rammenta qualcos’altro. Non si tratta di cercare di sedurre lo spettatore, ma di invitarlo, per mezzo di dettagli minuti, intimi, a tornare alla propria infanzia – sia pure in un contesto magari completamente diverso – a lasciarsi avvolgere dallo stesso calore, dalla stessa protettiva tenerezza che io sentivo quando sedevo a tavola con mio padre e mia madre, anche all’apice del conflitto. Ho provato questo solo quando ho visto il film, non mentre lo giravo... Il silenzio ti fa mettere in discussione le cose. Il silenzio è il respiro del cinema, anzi: è di più, è un momento di condivisione, e di partecipazione. Lo spettatore ha il privilegio di tradurre questo silenzio in parole, di prendere parte alla creazione dell’immagine. È un momento di tenebra rischiarato solo da una sigaretta accesa e dalla presenza di un caro amico. È la vista di un sorriso che ti fa capire di aver amato la vita. È il ritorno naturale e intuitivo alle origini del cinema».

 

La critica

 

Palestinesi. Israeliani. Abitanti palestinesi di Israele. Tutto il percorso cinematografico di Elia Suleiman sta dentro questa doppia e incerta cittadinanza di un popolo che non ha patria. I palestinesi rimasti a vivere nello stato di Israele guardano la loro terra che non è più loro. A partire da Cronaca di una sparizione, passando per Intervento divino, fino a questo magnifico Il tempo che ci rimane, Suleiman si muove entro lo spazio di un popolo che non ha più una terra. Miracolosamente e meticolosamente, grazie all’impiego di un’estetica al tempo stesso burlesca e rabbiosa, Suleiman riesce a fare dei film politici, radicati dentro la storia, e insieme dei film che sono cronaca quotidiana, sguardi innocenti, notazioni acute, strisce di un racconto in cui l’oppressione e il sentirsi perennemente sotto osservazione diventano immagini controllate e sicure. Ogni inquadratura di Suleiman porta come un contrassegno, un sigillo: fa parte di un percorso che avanza con passo misurato e calmo e, sotto la scorza di ogni immagine, c’è passione, dolore, malinconia e bruciante desiderio. A guardare i film di Suleiman, sembra di poterne mescolare le sequenze. Proprio come se le immagini fossero carte di un unico mazzo. Proprio come se Suleiman, di scena in scena, si ponesse delle domande intorno a una situazione ferma, bloccata da tanti decenni. Ai ricordi del passato seguono scene prese dal presente. Storie di famiglia si alternano a momenti della storia di tutti. Singoli episodi si vanno a comporre in movimenti più complessi. I ripetuti ritorni su un personaggio o su una circostanza intessono rimandi e riflessioni. Ogni presenza, di un personaggio, di un oggetto, di un luogo (il balconcino di casa), è legata, più o meno fortemente, a tutte le altre per vie anche sotterranee, fili silenziosi vengono tirati da un punto all’altro del film. Non c’è bisogno di intreccio, di un racconto sequenziale. A tenere compatto il film c’è sì il filo della storia autobiografica della famiglia del regista, ma quel che conta è il tono, è l’atmosfera: è la presenza permanente di un vuoto, di una mancanza. Tutto quello che è successo ai palestinesi, dopo la nascita di Israele, è stato vissuto in questo vuoto. A Nazareth, città natale di Suleiman, suo padre, combattente palestinese, viene arrestato nel 1948. Muore Nasser. E passano gli anni, si scatena l’intifada, viene costruito il muro divisorio di confine. Non cambia la storia, scorre solo il tempo: la vita della famiglia Suleiman, le relazioni con i vicini (quello che vuole bruciarsi con la benzina..., l’altro che lancia proclami improbabili...), il colore dei muri di casa, le canzoni che segnano gli anni, le notti passate a pescare, la scuola israeliana frequentata da bambino... Tutto questo materiale minimo di un diario familiare in cui si riflette la storia di un popolo senza terra diventa un lungo telo che si svolge e che racconta, senza l’ombra di una rivendicazione gridata, le esistenze e le resistenze palestinesi dentro l’esistenza di Israele. Ed è come se, tassello dopo tassello, scena dopo scena, tutte riprese a macchina fissa, fosse proprio questa fissità, ineliminabile, a venire in primo piano, a diventare la nota dominante dell’intero film. Fa dei film puliti e ordinati, Suleiman. Dove l’umorismo, spassoso o amaro, circola come linfa. Dove le immagini sono silenziose e rigorosamente composte, lo spazio è ben delimitato e i corpi dei personaggi ottengono tutto il rilievo necessario. Dove un giovane palestinese parla al telefonino per strada, muovendosi con calma di qua e di là, e il cannone di un carrarmato lo segue avanti e indietro, mentre il ragazzo non ci fa nessun caso. Dove il piatto di lenticchie della zia Olga finisce ogni volta nella pattumiera. Dove tragedie e speranze, umiliazioni ed emozioni vivono dentro il procedere, al tempo stesso erratico e fermo, della vita. Guardiamo un mondo che è stato espropriato del suo diritto a vivere e che pure insiste ad esserci, a dimostrare che non può essere finita così.

BBruno Fornara, Cineforum, n. 485, giugno 2009

 

 

 

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