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Scheda pdf (174 KB)
Segreti di famiglia - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALES.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 24 marzo 2011 – Scheda n. 21 (833)

 

 

 

 

 

Segreti di famiglia

 

 

 

Titolo originale: Tetro

 

Regia e sceneggiatura: Francis Ford Coppola

 

Fotografia: Mihai Malaimare jr. Montaggio: Walter Murch. Musica: Osvaldo Golijov.

 

Interpreti: Vincent Gallo (Tetro), Maribel Verdú (Miranda),

Alden Ehrenreich (Bennie), Klaus Maria Brandauer (Carlo/Alfredo),

Carmen Maura (Alone), Rodrigo De la Serna (José), Mike Amigorena (Abelardo).

 

Produzione: American Zoetrope. Distribuzione: Bim.

Durata: 127’. Origine: Usa, Argentina, 2009.

 

 

 

Francis Ford Coppola

 

Uno dei massimi registi viventi. Un nome che ci ha accompagnato dagli anni sessanta fino a oggi (anche qui al Cineforum). Francis Ford Coppola nasce a Detroit nel 1939, da una famiglia di origini lucane, emigrata da un piccolo paese, Bernalda, in provincia di Matera. Cresce a New York. Suo padre, Carmine Coppola, è compositore e musicista jazz, primo flauto dell’Orchestra Sinfonica della Nbc. Colpito dalla poliomielite e costretto a un lungo periodo di cura, Francis mette su un teatro di marionette e compone colonne sonore di musica classica per i filmini familiari. A 18 anni scopre Sergej M. Ejzenstejn, frequenta le proiezioni del Museum of Modern Art di New York, va a scuola di teatro, compra una 16mm e nel 1960 si iscrive al Cinema Department della Ucla. Entra in contatto con il re dei B-movies Roger Corman, lavora con lui e nel 1963 firma la sua prima regia con Terrore alla tredicesima ora. Poi dirige Fred Astaire nel musical Sulle ali dell’arcobaleno (1968) e prosegue con Non torno a casa stasera (1969). Riceve un Oscar per la sceneggiatura di Patton generale d’acciaio (1970). Poi recluta Robert Duvall, James Caan, Al Pacino, Marlon Brando, Diane Keaton, Franco Citti e Talia Shire per Il padrino (1972), primo film della triplice saga della “famiglia” Corleone, Oscar come miglior film e miglior sceneggiatura non originale. Nel 1974 esce Il padrino, Parte II (tre Oscar), con l’aggiunta al cast di Robert De Niro e Gastone Moschin (nel 1990, Coppola realizzerà il Padrino, Parte III). Sempre nel 1974, dirige Gene Hackman, Duvall e Harrison Ford in La conversazione, Palma d’Oro a Cannes. Del 1979 è l’altro massimo capolavoro, Apocalypse Now, ancora con Duvall e Brando, più Dennis Hopper, Martin Sheen, Harrison Ford e Vittorio Storaro alla fotografia, film ispirato a Cuore di tenebra di Joseph Conrad. Incredibile: nessun Oscar! Poi Coppola comincia a seguire una sua linea molto personale, quasi sempre con piccoli film: Rusty il selvaggio (1983), Cotton Club (1984), Peggy Sue si è sposata (1986), Tucker (1988), Dracula di Bram Stoker (1992), Jack (1996), L’uomo della pioggia (1997). Lo tengono occupato la produzione del suo vino, il Rubiconde, e la gestione della propria linea di specialità alimentari. Dopo 10 anni di silenzio torna alla regia con Un’altra giovinezza (2007) e con Segreti di famiglia (2009).

 

La critica

 

Il bianco e nero digitale, lucido abbagliante netto, è una presenza viva, precisa, staglia le figure nello spazio illuminando i volti dei personaggi come una spietata radiografia. I solchi dolorosi del tempo passato, che la memoria si ostina a nascondere, emergono come segni tangibili di una rimozione, laddove la pelle chiara e morbida della giovinezza impone la propria natura incorrotta e appassionata. Sul palcoscenico della Boca, quartiere popolare e meraviglioso di Buenos Aires, va in scena l’opera lirica dello sradicamento, il teatro della passione impedita. Senza remore, con tutto l’eccesso che serve, con tutta la voglia di abbandonare distanza e senso della misura e affidarsi una volta per tutte alla forza dei simboli e dei personaggi che li impersonano, Coppola ha finalmente realizzato il suo mélo fiammeggiante. Come se lo aspettasse da una vita e solo ora, dopo la rinascita della sua carriera con il fragilissimo ma necessario Un’altra giovinezza, avesse trovato le motivazioni per farlo. Non c’è neanche bisogno di andare a caccia di un modello: è Coppola stesso, con una voglia di mostrare e dimostrare da debuttante, a dircelo. È il cinema di Powell ed Pressburger, l’onnipresente Scarpette rosse e I racconti di Hoffman. In generale, è quel cinema spettacolare e fuori misura su cui si è formata la generazione dei registi visionari che hanno esordito negli anni Settanta, un cinema che ha volutamente letto la realtà in toni ostinatamente melodrammatici, come un confronto tra due istanze contrapposte figlie della medesima matrice. Da questa prospettiva, Segreti di famiglia è quasi un’opera-saggio, un’unica grande appassionata scatola cinese che contiene innumerevoli altre scatole cinesi che, strato su strato, livello per livello, si dischiudono dinanzi gli occhi incantati dello spettatore.

Proviamo ad elencare, liberamente e un po’ pedantemente, partendo dal contenitore per arrivare al contenuto: il bianco e nero, lucido splendente solare, e il colore, pastoso e sognante quando ricorda Powell, fosco e piatto quando rievoca i traumi famigliari; la luce abbagliante del giorno, in cui si svelano i segreti, e l’oscurità della notte, in cui si consumano gli incidenti; la prima parte ambientata nella Boca, serrata precisa tesissima, e la seconda che fugge in Patagonia, più libera, strabordante, assolutamente fuori controllo; il melodramma famigliare, con i suoi traumi e le sue ricuciture, e il melodramma artistico, con lo scontro tra rimozione e scrittura, rielaborazione autobiografica ed estasi creativa; un fratello che ha chiuso con il mondo e uno che ha appena cominciato a conoscerlo; una donna che ama senza chiedere e un uomo che chiede di non essere amato. Potremmo continuare ancora, ma chiuderemmo comunque il discorso parlando della scatola più grande, quella che contiene tutte le altre e che al suo interno racchiude il destino stesso dell’autore, il mélo personale, anch’esso famigliare e artistico, di una carriera partita dal cinema totale – con la saga cinematografica più famosa di sempre, con un capolavoro fuori dalle righe che ha devastato mezza giungla indocinese, con una sperimentazione visiva in anticipo almeno di vent’anni – ed ora è tornata al cinema stesso, dopo che per buona parte degli anni Novanta e un pezzo del Duemila aveva deciso di voltargli le spalle. E che dire, poi, di quei legami ingarbugliati che si sono sempre sospettati tra i mille talenti artistici e i mille cognomi di una famiglia hollywoodiana composta da musicisti, attori, registi, docenti di cinema e che ha perso l’impronta originaria del cognome Coppola per camuffarsi dietro un Shire, uno Schwartzman, un Cage… (...) Incantato dal proprio stesso sguardo, rivitalizzato da un digitale fiammeggiante nella sua lucidità, naturale e stupefacente continuazione dei lavori di levigazione delle immagini operato anni fa con Un sogno lungo un giorno (1982), I ragazzi della 56° strada (1983), Rusty il selvaggio (1983), Coppola ha fatto un passo oltre il recupero della sua stessa autorialità ed è arrivato al suo naturale ribaltamento. Segreti di famiglia è ciò che di più coppoliano si possa pensare, eppure è un film assolutamente unico nella sua filmografia. Come se fosse avvenuta la metempsicosi di un autore reincarnatosi nell’immagine di se stesso, con in più – o in meno – la possibilità di essere, questa volta sì, del tutto libero da ogni condizionamento produttivo o creativo.

E dunque il grande regista tornato esordiente trova la forza di eccedere, di non frenare, di dilungarsi nelle sue riflessioni metartistiche, tra cinema teatro vita, dopo aver dimostrato di controllare in modo stupefacente la materia narrativa. La parte del film ambientata nella Boca è un capolavoro assoluto di narrazione melodrammatica, con la fisicità dei personaggi che si impone come materia concreta del cinema e il cinema che si presenta come matrice prima di mito; con lo straordinario Vincent Gallo che si ispira al Brando di Un tram che si chiama desiderio e la situazione stessa di quiete famigliare interrotta dall’arrivo di un intruder, un intruso, che ricorda anch’essa Tennessee Williams. Ed è la stessa Boca, così racchiusa e scenografica come i viottoli di New Orleans, a farsi palcoscenico della vita vissuta e della vita ripudiata, con il teatro e la rappresentazione autobiografica di Tetro che si delineano come il culmine della scena famigliare, la scena primaria del rimosso che sa solo parlare con le parole dell’arte. Da qui, dalla messinscena coreografata del dolore, proprio come in Powell e Pressburger, nasce il senso di liberazione della seconda parte, almodovariana in senso non proprio elogiativo, totale ribaltamento del controllo narrativo dimostrato fino a quel punto, apertura all’inevitabile e all’impossibile che ha qualcosa di parodistico. L’eccesso disperde la materia narrativa, la voglia di dare un senso e una conclusione alla simbologia dei personaggi (il prigioniero, il liberatore, la donna sacrificata…) porta a una conclusione forzata, a un evento come il festival teatrale nella villa signorile improbabile e improponibile. Ma se è vero che Coppola in Segreti di famiglia ci ha messo tutto se stesso, allora è normale e bello che il film soffra della sua stessa mancanza di limiti, come un urlo a squarciagola, come un lavoro incompiuto che lascia le tracce di quello che sarebbe potuto essere se qualcuno avesse voluto dargli un ordine. Eppure non è di controllo che va in cerca l’altra giovinezza di Coppola. Dopotutto, se una storia la lasci andare via, è chiaro che la perderai di vista. E per fortuna Coppola ha il coraggio di farlo, di sciogliere le briglie e far correre il film da solo, salvo recuperarlo nell’ultima scena. Con tutta la sua voglia di scavare nello sporco e mettere in mostra le sue recriminazioni, con tutta la sua rabbia e la sua illuminante ingenuità, compie il suo ultimo sforzo da autore ritrovato lasciando allo spettatore lo spazio e l’emozione per colmare i vuoti della sua storia sfilacciata. È uno sguardo innamorato quello che egli chiede in cambio della sua rinnovata voglia di fare cinema, uno sguardo che sa sgranare gli occhi di fronte alla luce abbagliante per credere ancora che ogni poetica possa rinascere dalle proprie ceneri.

RRoberto Manassero, Cineforum, n. 490, dicembre 2009

 

 

 

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