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Oro verde (Cìera una volta in Colombia) - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

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S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 9 gennaio 2020 – Scheda n. 11 (1067)

 

 

 

 

Oro verde

C’era una volta in Colombia

 

 

 

Titolo originale: Pájaros de verano

 

Regia: Ciro Guerra, Cristina Gallego

 

Sceneggiatura: Jacques Toulemonde Vidal, Maria Camila Arias.

Fotografia: Davic Gallego. Musica: Leonardo Heiblum.

 

Interpreti: Josè Acosta (Rapayet), Carmina Martinez (Ursula),

Natalia Reyes (Zaida), John Narvaez (Moises), Greider Meza (Leonidas).

 

Produzione: Bord Cadre Films Ciudad, Blond Indian Films, Lunar Producciones.

Distribuzione: Academy Two.

Durata: 125’. Origine: Colombia, 2018.

 

 

Ciro Guerra e Cristina Gallego

 

 

Cristina Gallego è nata a Bogotà nel 1978. Si è laureata alla scuola di cinema. Nel 2001 ha fondato la compagnia di produzione Ciudad Luna insieme a Ciro Guerra e ha prodotto i film La sombra del caminante (presentato a San Sebastian, 2004), The Wind Journeys (Cannes, 2009) e L’abbraccio del serpente (Cannes, Quinzaine des realisateurs 2015, e candidato agli Oscar 2016). Ha anche prodotto altri film tra i quali Wajib di Annemaire Jacir, che abbiamo visto lo scorso anno qui al Cineforum. Insegna in varie scuole di cinema ed è stata invitata a parlare all’Organizzazione delle Nazioni Unite a Ginevra e alla Conferenza Ted di Bogotà. Oro verde - C’era una volta in Colombia è il suo debutto alla regia.

Ciro Alfonso Guerra è nato a Río de Oro nel 1981. I suoi primi film, La sombra del caminante e The Wind Jorneys (2009), sono stati selezionati in molti festival, Cannes, Toronto, San Sebastian, Rotterdam, Locarno, Tribeca, Londra, Hong Kong, Cairo, Gerusalemme e L’Havana. L’abbraccio del serpente, suo terzo film, ha vinto il premio come miglior film alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes nel 2015 ed è stato il primo film colombiano nominato all’Oscar come miglior film straniero. Dopo Oro verde, il suo film, Waiting for the Barbarians, è stato presentato in concorso a Venezia nel 2019.

Ascoltiamo i due registi.

C.GA. e C.GU.: «Oro verde è un film di gangster e spiriti. Un film su una famiglia, una storia di donne di potere forti e intuitive che aspettano il ritorno di uomini, inconsapevoli e impulsivi, che parlano e si danno da fare, intuizione contro ragione, innocenza contro vendetta, parola contro onore. Tutto per raccontare l’immane sciagura che ci avrebbe maledetto per sempre. Il grande tabù di cui non è permesso parlare. Raccontato per una volta in modo intimo, personale, a modo nostro. Come una brezza che sembrava essere arrivata per rinfrescare e che invece diventa tempesta devastante. Quello che rappresentiamo è la faccia vera del capitalismo allo stato puro. Il nostro jayeechi, il nostro canto degli uccelli...

C. GU. Senza rinnegare le nostre origini e i nostri film precedenti, possiamo considerarlo un punto di partenza, la nostra prima incursione nel cinema di genere. L’idea è di esplorare la nozione di mito, che è stato per me oggetto di interesse per tanto tempo. Come nei film precedenti volevamo parlare dei popoli nativi dell’America Latina, delle loro storie spesso trascurate, e volevamo farlo utilizzando i codici del cinema di genere. È iniziato tutto con la voglia di rivisitare il genere. In più, Oro verde parla di una cultura molto particolare, quella del popolo wayuu, una società matriarcale, quasi un sistema in cui le donne prendono tutte le decisioni e hanno la responsabilità dell’intero clan».

C. GA. «Da un lato il film è senza dubbio il proseguimento di un processo creativo iniziato già nei nostri film precedenti; per Ciro come regista e per me come produttrice. Dall’altro lato, è una nuova partenza perché è il primo film che abbiamo co-diretto. Il mio contributo a L’abbraccio del serpente era stato consistente da un punto di vista creativo, soprattutto per quello che concerne la sceneggiatura e il montaggio. Firmare insieme questo film è stato un modo di mettere in chiaro i nostri ruoli...».

C. GU. «Per me è un film noir, un gangster movie. Ha anche qualcosa del western, della tragedia greca e dello stile dei racconti di Gabriel Garcia Marquez. In un certo senso, i film di genere sono diventati gli archetipi leggendari della nostra era. Sin dall’alba dei tempi, gli esseri umani hanno usato i miti per spiegare l’ordine delle cose e dare un senso alle nostre vite caotiche il cui scopo spesso ci sfugge. Questa è la funzione che i generi hanno oggi: preordinano la nostra comprensione del mondo e ci comunicano in anticipo il registro nel quale la storia sta per volgersi. Oltre questo, mi sono sempre considerato il cantastorie delle civiltà primitive. Quello che facciamo è simile a quello che loro facevano nelle caverne 30.000 anni fa: usavano la luce e le ombre per raccontare storie».

C. GA. «La civiltà che raccontiamo nel film, il popolo dei wayuu, vive rispettando codici di comportamento che non sono così dissimili da quelli usati dai gangster. Un personaggio in particolare, il messaggero di parole, il portavoce, il cui ruolo è molto simile a quello del consigliere nelle famiglie mafiose. Questo genere di tipo ‘gangsteristico’ è molto apprezzato nel mondo ma al nostro cinema non è permesso esplorarlo liberamente. In Colombia in particolare è stato difficile occuparsene perché gli effetti negativi sono ancora presenti nella nostra storia recente. Tra il 2006 e il 2007, abbiamo girato la costa nord della Colombia per preparare il nostro film The Wind Journeys. Una delle scene si svolgeva durante la bonanza marinbera (gli anni tra il 1975 e il 1985), abbiamo fatto varie ricerche, discusso l’argomento con le popolazioni locali. Abbiamo ascoltato una quantità di storie di cui non avevamo mai sentito parlare. In quel momento ci siamo chiesti: perché nessuno prima ha mai raccontato questa storia?... Nella comunità wayuu, le donne gestiscono le questioni economiche e politiche. Ma è allo stesso tempo una cultura imbevuta pesantemente di maschilismo. Durante le nostre ricerche per scrivere la storia, abbiamo constatato che molte persone negavano la partecipazione delle donne nel business del narcotraffico: “le donne devono stare a casa”, ci rispondevano. Abbiamo scoperto presto che non era esattamente così. Non volevamo realizzare un’altra saga di Godfather, di una serie di ‘padrini’, ma piuttosto una “Godmother story”. È nato così il personaggio della matriarca...»

 

 

La critica

 

 

Per vederlo, il passaggio degli uccelli (cui si riferisce il titolo originale Pajaros de verano, Uccelli d’estate), basta sapere dove – e soprattutto quando – mettersi a osservare il cielo. Ma per capirlo, conoscerlo, sapere quali connessioni con il tempo, il mutare dei cicli naturali e delle stagioni nasconde, bisogna restare fermi anni, decenni, se non addirittura vite o generazioni in uno stesso luogo. E diventare tutt’uno con lo spazio e con il tempo, anche se intorno, tutto, sembra sempre uguale a se stesso. Oro verde inizia raccontando proprio questa lentezza e lo fa mostrando i cicli secolari che scandiscono la vita degli indios Wayuu, una popolazione di nativi americani originari della penisola della Guajira, nella Colombia settentrionale al confine con il Venezuela. I riti di iniziazione delle giovani donne, le danze rituali per combinare i matrimoni, gli accordi economici fra le famiglie, la rivalità fra le tribù che il film mostra nei primi minuti sembrano essere l’incipit di una storia che intende indagare le radici etnografiche di un popolo costretto a fare i conti con un presente – siamo negli anni Sessanta del Novecento – che fa rima con progresso. Ma al quale un sistema tribale come il loro sembra incapace di adattarsi e per questo destinato a scomparire. Invece è proprio nel momento in cui pare che la storia sia incanalata su questo binario che Oro verde cambia passo e si trasforma in qualcos’altro. Lo scontro fra gli Wayuu e il progresso diventa infatti il focus di una prospettiva del tutto differente e inaspettata. Il giovane Raphayet vuole sposare Zaida ma non ha abbastanza denaro per pagarsi la dote (che nella cultura degli indiani Wayuu spetta all’uomo). Trova però ben presto un metodo facile e veloce per far soldi: vendere marijuana (che altri nativi coltivano sulle colline della penisola) agli hippie americani che bivaccano sulle spiagge della costa vicino al villaggio degli indios. Il passo per diventare un ricco e potente narcotrafficante internazionale a quel punto è brevissimo e – nell’arco di una decina d’anni – Raphayet costruisce un piccolo impero criminale. La vicenda da cui prendono spunto Guerra e Gallego è accaduta realmente ed è di fatto il momento fondativo della lunga (e infinita) storia del narcotraffico colombiano (quello della cocaina, che come è ricordato in un fugace dialogo del film, era affare di quelli di Medellin, sarebbe esploso solo pochi anni dopo). Ai due registi tuttavia non interessano né la cronaca né la storia, quanto piuttosto il valore antropologico e culturale che la complessa questione del traffico di stupefacenti fra Stati Uniti e America Latina veicola. Come un colpo di coda tardivo del colonialismo il narcotraffico – nel film – riesce infatti a distruggere anche quella minuscola parte di popolazioni native che ancora sopravvive nel continente americano. I bianchi, che nel film ricoprono un ruolo marginale, soccombono tanto quanto (forse addirittura in maniera peggiore) gli indios ai giochi di potere che il mercato della droga scatena, ma la questione che marca una differenza decisiva e sostanziale è quella antropologica. Sono infatti i valori che vengono dati alle persone e alle cose a determinare lo scarto fra le culture in gioco. A differenza delle storie di narcotraffico che il cinema ci ha raccontato (da Scorsese in giù) in Oro verde vediamo un microcosmo di criminalità autodistruggersi non a causa del denaro – vero principio ontologico del colonialismo – ma in nome di una tradizione morale e di una memoria millenaria che pur nutrendosi con la superstizione non danno quasi alcun valore dei beni materiali. Come se l’illusione stessa di poter giocare allo stesso gioco dei conquistatori sia allo stesso tempo un’inesorabile condanna. E nel finale del film, quando gli stormi di uccelli giungono a scandire il passaggio del tempo e delle stagioni, incontrano lo stesso deserto di sempre, le stesse foreste e le stesse spiagge. Ma più nessuno fermo a osservarli.

LLorenzo Rossi, cineforum.it, 10 aprile 2019

 

 

 

 

 

 

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Il traditore

 

 

 

 

 

 

Marco Bellocchio, uno dei nostri grandi registi, fin dallesordio con I pugni in tasca (1965) ha sempre sudato, scavato, dissotterrato tante vicende italiane di misteri, brutalità, mafia e politica.

Il traditore è la storia, potente, tragica, terribile, di Tommaso Buscetta, mafioso e collaboratore di giustizia.

Durata: 135 minuti.

 

 

 

 

Giovedì 16 gennaio, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

 

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