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Les plages d'Agnès - Scheda del film

 

 

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 22 marzo 2012 – Scheda n. 20 (859)

 

 

 


Les plages d’Agnès

 

 

 

Regia e sceneggiatura: Agnès Varda

 

Fotografia: Julia Fabry, Hélène Louvart, Arlene Nelson, Alain Sakot, Agnès Varda.

 Montaggio: Baptiste Filloux, Jean-Baptiste Morin.

Musica: Joanna Bruzdowicz, Stéphane Vilar.

 

Con: Agnès Varda, André Lubrano, Blaise Fournier, Vincent Fournier,

Andrée Vilar, Rosalie Varda, Mathieu Demy, Christophe Vallaux,

Jim McBride, Zalman King, Eugene Kotlyarenko, Jane Birkin,

Constantin Demy, Joséphine Demy, Yolande Moreau.

 

Produzione: Ciné-Tamaris, Arte France Cinéma.

Distribuzione: Lab80 Film, Film Festival del Garda, Federazione Italiana Cineforum.

 Durata: 110’. Origine: Francia, 2008.

 

 

 

Agnés Varda

 

Grande regista francese, sulla scena fin dagli inizi di quella rivoluzione cinematografica che fu la Nouvelle Vague, il movimento che alla fine degli anni Cinquanta e per tutti gli anni Sessanta segnò una svolta fondamentale nel modo di pensare, di scrivere, di girare un film, di fare cinema. Basta sceneggiature rigide, basta film polverosi, basta girare al chiuso degli studi. Libertà di scrittura, sceneggiature libere, riprese per le strade, attori giovani, registi nuovi. Agnès Varda, insieme a Jean-Luc Godard, François Truffaut, Jacques Rivette, Claude Chabrol e tanti altri cambiò il cinema (e un po’ anche il mondo: chi c’era negli anni Sessanta se lo ricorda; il nostro Cineforum fu fondato allora e molti film dei registi della Nouvelle Vague furono mostrati nei nostri primi anni...). In Les plages d’Agnés, la Varda torna sulle spiagge che hanno segnato la sua vita e si inventa un autodocumentario umoristico ed emozionante, tra brani di suoi film, immagini, racconti, incontri. Il diario di una vita: l’impegno femminista, i viaggi a Cuba, negli Usa, in Cina, il lavoro di regista indipendente, il suo rapporto con il grande regista Jacques Demy, il suo amore per le spiagge.

Agnès Varda (1928, Bruxelles) inizia la carriera come fotografa al Théatre National Populaire di J. Vilar, esordisce al cinema nel 1954 con il mediometraggio La Pointe Courte, montato da Alain Resnais e interpretato da un giovanissimo Philippe Noiret, seguono i corti Ô saisons, ô châteaux (1956) e Du côté de la Côte (1959), poi il documentario L’Opéra-Mouffe (1960), diventa una anticipatrice della Nouvelle Vague di cui entra a far parte a pieno diritto con il film Cléo dalle 5 alle 7 (1962), girato per le strade di Parigi. Vengono poi Le bonheur, Il verde prato dell’amore (1964), Les créatures (1966) e il film militante e collettivo Lontano dal Vietnam (1967). Si reca in America con il marito regista Jacques Demy e vi gira Black Panthers (1968) e I leoni amano (1969). Altri suoi film: Una canta e l’altra no (1977), Mur, murs (1981), Nausicaa (1970) e Daguerreotypes (1975). Ottiene un grande successo internazionale con Senza tetto né legge, Leone d’oro a Venezia nel 1985, seguito da Jane B. par Agnès Varda (1988, Jane B. è Jane Birkin), Kung-fu Master (1988) e da Garage Demy (1992), dedicato al marito da poco scomparso. Nel 1977 con il marito aveva fondato Cine-Tamaris, la sua casa di produzione che le permise grande libertà nel fare cinema. I lavori più recenti sono molto particolari e sempre molto belli: Les glaneurs et la glaneuse, Gli spigolatori e la spigolatrice (2000), Deux ans après (2002), Cinévardaphoto (2004) e questo Les Plages d’Agnès, originalissimo autoritratto.

 

La critica

 

Una cosa ci insegna Agnès Varda, che ci vuole intelligenza, ironia e garbo per raccontarsi, per esprimere le proprie emozioni, i sentimenti che hanno permeato una vita intera, le relazioni più intime, perché solo con l’intelligenza possono diventare quella piccola storia che è parte di un patrimonio e di un’epoca comuni. Non ha paura, Agnès Varda, di mettersi in gioco davanti alla macchina da presa, di mettersi in scena, attraverso i ricordi e le testimonianze, attraverso la finzione. La memoria è commozione, sofferenza, gioia, ma è anche creatività, immaginazione, cinema. La memoria è fatta di parole chiave, di scelte estetiche, di fissazioni, di sdoppiamenti. L’incipit del film è una variazione di riflessi: gli specchi, che Agnès sfoglia come le pagine di un diario, restituiscono le immagini di un set in formazione. Ma, forse, più degli specchi contano le cornici, l’atto dell’inquadrare, di costruire dei bordi, di scegliere una determinata porzione di realtà, di concentrarsi su qualcosa che è estratto dal mondo circostante e, in questo modo, acquisisce un’altra vita, un altro modo di essere. La scena del quadro costituito dalla struttura di tubolari che, oltre al contorno, forma una prospettiva in profondità, è alquanto eloquente. I surfisti che passeggiano sulla spiaggia orizzontalmente, quando entrano nel rettangolo della struttura, quello più piccolo, più lontano rispetto all’osservatore, prendono una diversa connotazione, un diverso rapporto con il mare dello sfondo e con l’osservatore che li sta guardando perpendicolarmente. Passano dalla “trasparenza” della vera inquadratura a un differente rapporto di rappresentazione: cambiano le proporzioni ma, soprattutto, cambia il modo di guardare: è come se entrassero in scena veramente. Instabilità, variazioni angolari, cambi di posizione e di sguardi, ricerca delle immagini giuste. Il ritorno sulla spiaggia della prima infanzia non ha nulla di nostalgico. A distanza di tempo, le tracce del passato non ci sono più: esso può, così, trasformarsi in un luogo cinematografico, dove portarsi gli strumenti del mestiere e, insieme, le impalcature della propria visione. Agnès si predispone a un viaggio nel tempo, ma quella che lei chiama, con una simpatica unione di parole, autocinedocumentario, è l’esperienza dell’io che si misura con i passaggi che la storia gli ha apparecchiato, con le persone che hanno intersecato il suo essere nel mondo e che egli ha trasformato in veri e propri personaggi di una rappresentazione che dura tuttora, con le culture che lo hanno reso plastico e aperto all’altro da sé, con i paesaggi, geografici estetici letterari filosofici, che lo hanno accolto e riempito di doni, con il cinema e i modi di porsi in esso e in esso dispiegarsi come autore. Su quella spiaggia inaugurale sono collocati elementi di interrogazione, le basi di un pensiero che si fa inarrestabile e intenso di argomenti e riflessioni. La spiaggia, o meglio le due spiagge di Knokke-le-Zoute in Belgio e Sète in Francia, sono innanzitutto l’origine, l’infanzia, la famiglia, l’esodo, il vento, l’acqua, la vela, la luce, la soglia. E questi due luoghi sono i preludi di altre spiagge: l’America, ma anche Parigi, perché anch’essa ha la sua spiaggia, che fornirà la materia prima per creare una spiaggia personale nel cuore stesso della città, davanti alla porta di casa, come a dire che, in fondo, tante fantasie possono farsi materia, spazio, intrusione, gioco, realtà. L’essenziale è volerlo, deciderlo, costruirlo, credere che ciò abbia un senso, che può essere oggetto di rappresentazione, parte del racconto, proiezione condivisibile della propria interiorità. Rue Daguerre – un nome che traduce l’incombenza del destino – e la casa, quella che diventa quasi la vita stessa, la scelta fatta con la persona amata, la sua trasformazione nel corso degli anni dalle prime condizioni di degrado ma tanto amate e mai dimenticate dopo i successivi interventi, non semplici ristrutturazioni, ma sovrapposizioni di affetti, di convivenze, di intimità, di nuovi arrivi, di ospitalità, di creatività. La crepa nel soffitto, come la ruga che segna un volto che ha tanto visto e vissuto, che Agnès osserva con indulgenza, con reticenza, con simpatia, con un leggero cedimento alla malinconia. C’è stata un’altra casa nella sua vita, dove ha trascorso i primi anni e dove ritorna, chiamata dal proprietario, un simpatico collezionista di trenini elettrici. Gira per quelle stanze, racconta cosa vedeva dalle finestre, parla di un laghetto nel piccolo giardino, che c’è ancora e che è vuoto, di un ponticello che non c’è più; ma l’atteggiamento è da entomologo, la mente distaccata. Quella casa non le appartiene più, è solo una sopravvivenza architettonica, piacevole da rivedere ma ormai lontana, come in una cartolina riposta nel cassetto. Quando la porta si richiude, come unico ricordo rimane la cordialità della coppia che ci abita e l’assenza di tracce che richiamino una frequentazione passata. Il ricordo, per Agnès Varda, è un’altra cosa. Le spiagge sono contemporaneamente una presenza carica di richiami e una regione mentale: ritornare a esse è un’affettuosa vacanza, uno spazio da condividere, mano nella mano, con la persona cara. E sono anche una residenza della creazione, un ambiente ideale per il lavoro dell’immaginazione. (...) E poi c’è Jacques, la persona più amata, più accettata, più appartenuta: una convivenza di emozioni, attrazioni, pensieri, interrotta per sua decisione, ricomposta dal suo ritorno, come per una parentesi necessaria, che era nell’ordine delle cose. La terribile notizia della malattia, la decisione di usare un “affettuoso silenzio”, il suo corpo che man mano disegna l’imminenza della morte, gli occhi scavati che con straziante dolcezza guardano la donna che li sta filmando, arrendevoli ma ancora intensi d’amore sono lo specchio di una commozione discreta, delle lacrime appena percettibili che Agnès non riesce a trattenere. L’esistenza condivisa anche attraverso il cinema: Jacques, ormai stanco, acconsente che un film, Garage Demy, racconti la sua infanzia, probabilmente perché sa che la donna che ama può dire il vero su di lui, può, sebbene per mezzo della finzione, restituire i caratteri della sua esistenza. E la malattia, come dicono alcuni che hanno partecipato alla realizzazione del film, diventa parte integrante del progetto e le riprese la maniera di stargli accanto il più a lungo possibile. Parlare di questo film è l’occasione per Agnès di riflettere sulla costruzione del film stesso e sull’utilizzo del cinema come ricostruzione diretta e indiretta della biografia di una persona (...).

AAngelo Signorelli, Cineforum, n. 500, dicembre 2010

 

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