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Poetry - Scheda del film

 

 

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 8 marzo 2012 – Scheda n. 18 (857)

 

 

 

Poetry

 

 

Titolo originale: Shi

 

Regia e sceneggiatura: Lee Chang-dong

 

 Fotografia: Kim Hyun-seock. Montaggio: Kim Hyun.

 

Interpreti: Yun Jung-hee (Yang Mi-ja),

David Lee (Yang Jong-wook, il nipote), Kim Hee-ra (il signor Kang),

Ahn Nae-sang (il padre di Kibum), Kim Yong-taek.

 

Produzione: Pinehouse Film. Distribuzione: Tucker.

Durata: 139’. Origine: Corea del Sud, 2010.

 

 

Lee Chang-dong

 

Incontriamo uno dei più importanti registi e sceneggiatori del nuovo cinema asiatico. E non solo regista: Lee Chang-dong è stato Ministro della Cultura e del Turismo della Corea del Sud. Nato a Daegu, nel 1954, si laurea nel 1981 in letteratura coreana, inizia da subito a occuparsi di regie teatrali e drammaturgia, insegna nei licei, pubblica il suo primo romanzo, “Chonri”, nel 1983, poi scrive sceneggiature, infine si mette dietro la macchina da presa per il film d’esordio, Il pesce verde (1997). Del 1999 è Caramella alla menta e nel 2002 arriva Oasis, premiato a Venezia. Fa il ministro della cultura nel 2003 e 2004. Gira nel 2007 La luce segreta e infine, nel 2010, Poetry, premiato a Cannes per la sceneggiatura.

 

La critica

 

Quinto film di Lee Chang-dong, e suo secondo, dopo Oasis, a essere distribuito sugli schermi italiani, Poetry consacra finalmente il regista sudcoreano come uno degli autori di maggior rilievo del cinema asiatico contemporaneo. Già autore di opere premiate a Venezia e Cannes, Lee Chang-dong non appartiene, coi suoi film, a quelle roboanti estremità che hanno caratterizzato certe figure emergenti del suo paese, come Kim Ki-duk o il Park Chan-wook di Old Boy. Per quanto le sue trame siano spesso altrettanto forti di quelle dei registi appena citati, i suoi film fanno un uso più morbido della violenza, spesso relegata nei vuoti del fuori campo e dell’ellissi (come accade per lo stupro e il conseguente suicidio della vittima, eventi che fanno da motore narrativo a Poetry). I fatti, per Lee Chang-dong, contano soprattutto per ciò che essi significano per coloro che li vivono. Quello del regista sudcoreano è, innanzitutto, un cinema di personaggi. Tutto Poetry è costruito intorno a Mi-ja, una donna di sessantasei anni che sta ammalandosi di Alzheimer. Se si escludono la sequenza iniziale e quella finale, tutte le altre scene del film ruotano intorno alla presenza di Mi-ja. La macchina da presa di Lee la bracca, coi suoi movimenti a spalla, senza sosta, dall’inizio alla fine, mettendo in scena, con rara intensità, il suo anelito a trovare nella poesia una ragione di vita più autentica, ma anche una possibile via di fuga dai drammi e dalle fatiche della vita quotidiana. Poetry scandisce con rigore la vita di Mi-ja, strutturando il proprio intreccio nel succedersi di una serie di situazioni (e luoghi che le incarnano) che rappresentano le diverse realtà della sua condizione esistenziale. L’appartamento di Mi-ja, che la donna condivide col nipote adolescente, è il luogo in cui ella è costretta a confrontarsi con la colpa di questi (il già citato stupro col conseguente suicidio della vittima), e il dolore che tutto ciò provoca in lei. Le sale d’attesa degli ospedali e gli studi medici danno corpo alla sua incipiente malattia (che lei finge di ignorare, e su cui tace al telefono con la figlia). I locali pubblici, dove incontra i padri degli altri ragazzi coinvolti nello stupro, hanno a loro volta il compito di esplicitare il problema relativo al denaro che Mi-ja deve in qualche modo procurarsi, senza sapere come, per trovare un accordo con la madre della ragazza che si è tolta la vita. L’appartamento del vecchio Kang, in cui la donna si reca più volte per fare le pulizie, è, dal canto suo, il luogo in cui in cui Mi-ja scopre, senza alcun piacere, di poter essere ancora l’oggetto del desiderio sessuale di un uomo (cosa che le permetterà di racimolare il denaro necessario al compromesso). L’aula del corso di poesia e la sala dei reading, delle letture delle poesie, infine, sono lo spazio in cui prende forma il suo anelito alla poesia, a una dimensione in grado di trascendere le logiche e le fatiche del quotidiano (come accade anche in quei diversi momenti in cui la donna, soprattutto all’aperto, cerca di trarre ispirazione dal contatto con la natura), ma sono anche lo spazio, soprattutto la sala dei reading, in cui la donna matura quanto la sua idea di poesia come bellezza e purezza d’animo sia alquanto inappropriata. La storia di Mi-ja è, infatti, la storia di una crescita, dell’acquisizione di una consapevolezza. È un romanzo di formazione che ha per protagonista una donna di sessantasei anni. Mi-ja scopre nel suo cammino, e in particolare attraverso l’incontro col poliziotto e aspirante poeta Park, che la poesia è anche altro da ciò che lei ingenuamente immagina. Che essa non può sottrarsi dall’incontro con tutti gli aspetti dell’umanità, anche quelli che lei considera più torbidi e svilenti. La poesia è braccata dalla realtà, non solo in quanto questa, che per certi aspetti è il suo contrario, la rende difficile (come faccio a far poesia quando devo procurarmi a tutti i costi quattro milioni di won?), ma anche perché la poesia stessa non può fare a meno della realtà, non può vivere in una dimensione separata da essa, ma deve in qualche modo farla propria. Ciò che Mi-ja apprende è, da una parte, che la poesia non può essere un alibi per fuggire dalla realtà (e così, quando tutto sembra ormai risolto per il meglio, i soldi sono stati trovati e la madre della suicida ha accettato il compenso in denaro, la sua coscienza la spinge a denunciare alla polizia il nipote, provocando l’arresto di questi e l’apertura delle indagini); e, dall’altra, che la stessa poesia non può che trovare la sua forza a partire da uno stretto legame con la realtà (e così la lirica, che alla fine troverà finalmente la forza di scrivere, non parla di fiori o uccelli, bensì del dramma della ragazza che si è tolta la vita). Di particolare importanza, a questo riguardo, sono le scene finali del film, quando, dopo che la voce narrante della ragazza ha preso il posto di quella di Mi-ja nella recitazione della poesia che la donna ha composto, le immagini che ripercorrono il gesto suicida della giovane vittima, sino all’avvicinarsi al ponte da cui si era gettata, si sospendono in un frame stop, in un fermo immagine della ragazza che, dopo aver guardato l’acqua del fiume, si volge verso la macchina da presa e, in un primo piano assai coinvolgente, interpella direttamente lo spettatore. Quasi che la forza di quelle parole, di quella poesia, riuscisse a modificare il passato, o almeno a sospenderne il corso un attimo prima che l’irreparabile accada. La poesia (l’arte, il cinema) non più come fuga dalla realtà, ma come strumento per incidere sulla realtà. Autore nel senso forte della parola, Lee Chang-dong ha dato corpo, attraverso la sua filmografia, a un universo assai coerente che Poetry non fa che ribadire. In un saggio scritto prima dell’uscita di quest’ultimo film, individuavo alcuni luoghi di passaggio che caratterizzano l’opera del regista sudcoreano. In primo luogo i suoi film tendono a concentrarsi su personaggi di intrusi, segnati da un drammatico passato. In Green Fish e Oasis, ad esempio, i due protagonisti ritornano, all’inizio del film, in seno a una famiglia che non li vuole più, e devono confrontarsi l’uno col frantumarsi del proprio gruppo familiare, avvenuto durante la sua assenza, e l’altro con le conseguenze dell’essere stato in prigione. Anche Mi-ja è un’intrusa, come dimostra, fra il resto, il suo rapporto con i padri dei compagni del nipote, colpevoli anch’essi di stupro: non solo lei è oggettivamente diversa da loro (è una donna e gli altri sono uomini, è una nonna e gli altri sono padri, è più anziana e non ha i soldi necessari a “compensare” la madre della vittima), ma ogni volta che si riunisce con loro se ne estranea, non partecipando alla discussione o addirittura andandosene. Il drammatico passato che segna la vita degli altri protagonisti dei film di Lee, in Poetry assume la forma di un drammatico futuro, rappresentato dall’incipiente morbo di Alzheimer. Un’altra caratteristica comune ai personaggi del regista è il loro essere “senza famiglia”, come la protagonista di Secret Sunshine, che ha perso il marito e il figlio, o come quello di Peppermint Candy, separatosi anch’esso dai suoi cari. Non diversa è la realtà di Mi-ja, come testimoniano l’assenza di un marito, cui mai si fa cenno, quella della figlia, che vive e lavora lontano, e il rapporto fatto di soli silenzi col nipote. Questa assenza di una vera famiglia spinge i personaggi di Lee a crearsene una artificiale, a entrare a far parte di un gruppo che li accolga e di cui possano sentirsi parte: la banda di gangster per il protagonista di Green Fish, la polizia per quello di Peppermint Candy, o il gruppo religioso per quella di Secret Sunshine. Una scelta analoga fa anche Mi-ja, quando entra a far parte della comunità degli aspiranti poeti. Ma anche lei, come gli altri personaggi di Lee, si troverà poi in attrito con tale nuova famiglia, come accade nella scena del ristorante, in cui la sua ingenua adesione alla poesia come bellezza è derisa dal giovane, affermato, e ubriaco poeta che le siede di fronte. Un altro tratto comune ai personaggi del regista è l’esistenza di un sogno che essi in qualche modo riescono a realizzare, a volte anche dopo la loro morte (come il ricomporsi della famiglia in Green Fish, o il ritorno alla purezza originaria in Peppermint Candy). Anche Mi-ja realizza, come già abbiamo visto, il suo sogno: è lei l’unica fra i partecipanti del suo corso a scrivere una poesia; una poesia che riuscirà a sospendere nel tempo il suicidio della ragazza, in un epilogo che, come ancora accade molte volte nel cinema di Lee, più che chiudere il racconto in se stesso sembra aprirlo a nuovi e possibili destini.

DDario Tomasi, Cineforum, n. 503, aprile 2011

 

 

 

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