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Locandina del film
Crash - Locandina
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Crash Contatto fisico - Scheda del film

CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA


quarantatreesima stagione

in collaborazione con:

CINEMA SOCIALE - S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA - IL CINEMA DIFFUSO
promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

 

Giovedì 22 febbraio 2007 – scheda n. 17 (720)

 

Crash – Contatto fisico

 

Titolo originale: Crash

 

Regia: Paul Haggis

Sceneggiatura: Paul Haggis, Bobby Moresco. Fotografia: James Muro.

Montaggio: Hughes Winborne. Musica: Mark Isham. Scenografia: Laurence Bennett.

Interpreti: Don Cheadle (il detective Graham Waters), Matt Dillon (l’agente Ryan),

 Brendan Fraser (il procuratore distrettuale Rick Cabot),

Sandra Bullock (Jean Cabot), Thandie Newton (Christine Thayer),

Ryan Philippe (l’agente Tommy Hanson), Jennifer Esposito (Ria),

William Fichtner (Jake Flanagan), 

Terrence Dashon Howard (Cameron Thayer), Ludacris (Anthony).

Produzione: Bull’s Eye, Paul Haggis Productions, Status Film Co.

Distribuzione: Filmauro.

Durata: 113. Origine: Usa, 2005.

 

Il regista

 

Paul Haggis è arrivato (quasi) di colpo al successo con l’Oscar per il miglior film con questo Crash. Diciamo “quasi” perché, prima di arrivare alla regia, Haggis ha firmato la sceneggiatura di Million Dollar Baby di Clint Eastwood. Haggis è nato nel 1953 a London, che non è la Londra che conosciamo ma una località dell’Ontario, in Canada. Suo padre è proprietario e gestore di un teatro, così fin da piccolo Paul respira aria di spettacolo. Poi si dedica alla tv come sceneggiatore e regista, infine passa al cinema come sceneggiatore. L’incontro con Eastwood è decisivo: oltre a quella di Million Dollar Baby, Haggis ha scritto anche la sceneggiatura del prossimo (e doppio) film di Eastwood, Flags of Our Fathers. Di recente ha scritto anche le sceneggiature per il remake americano dell’Ultimo bacio di Muccino e di Casino Royale, il film di 007. Crash è la sua prima regia. Ecco qualche sua dichiarazione sul film: «Troppo facile puntare il dito contro i cattivi e i razzisti. Ho voluto fare un film scomodo, che partisse dalle mie stesse paure, per riflettere su quelle dell’intera nazione e costringere il Paese ad ammettere la sua intolleranza… Tutto è iniziato quando sono stato derubato della mia auto da due uomini armati. Da allora ho cominciato a interrogarmi su chi fossero i rapinatori, come trascorressero il loro tempo e perché avessero compiuto un simile gesto. Da qui ho deciso di immedesimarmi in loro e di seguirne il privato, per comprenderne le ragioni… Il cinema si è sempre avvalso della dicotomia tra buoni e cattivi. Una prospettiva di certo rassicurante, ma ben lontana dalla realtà. L’ambiguità di ogni personaggio è la stessa che contraddistingue ciascuno di noi. L’America è cambiata, rispetto a 50 anni fa, le forme della discriminazione sono oggi meno plateali. Il vero problema degli Stati Uniti è oggi una discriminazione strisciante, sommersa, ma non per questo meno dannosa. L’interrogativo da cui sono partito è il prezzo in termini di dignità, che i neri e le minoranze sono costrette a pagare per una convivenza pacifica…. L’ambientazione a Los Angeles è casuale. Il ritratto che ho voluto fornire è quello di una scena globale sempre più dominata dall’isolamento e dal sospetto. Questa tendenza a barricarsi nel proprio recinto e rifiutare chiunque ne sia fuori ormai contagia gran parte del mondo occidentale».

 

La critica

 

Los Angeles, oggi. In 36 ore, le vite di esponenti assortiti del melting pot americano si sfiorano e si toccano con effetti violenti, teneri o drammatici. Però Crash – Contatto fisico, eccellente debutto nella regia dello sceneggiatore di Million Dollar Baby non è un film programmaticamente pessimista, ma un film adulto e motivato, del tutto controcorrente rispetto alla polarità buoni-cattivi che impera da tempo immemorabile a Hollywood e che si è acutizzata dopo l’11 settembre. Vi si apprende che anche un regista affermato può essere vittima dei pregiudizi razziali, un giovane delinquente può mostrarsi capace di pietà per chi sta peggio di lui, un poliziotto razzista salvare, a costo della vita, la donna di colore che aveva molestato poche ore prima. Fobie e paranoie accomunano classi sociali e anagrafiche divise da tutto: la ricca signora bianca con marito in carriera (Sandra Bullock e Brendan Fraser, genialmente utilizzati in ruoli agli antipodi dei loro soliti), che si barrica in casa per paura delle aggressioni, come il piccolissimo commerciante iraniano, deciso a uccidere l’operaio ispanico che gli avrebbe installato una serratura difettosa. Se il maturo debuttante non usa materiali inediti, l’importante è che li usa bene.
La struttura narrativa, che si richiude circolarmente su se stessa, ricorda i film corali di Robert Altman (in particolare America, oggi) e Magnolia di P.T. Anderson, ma senza sfigurare dinanzi a modelli così prestigiosi. Quanto all’idea di rappresentare personaggi né del tutto buoni, né del tutto cattivi Haggis non è il primo a farlo: però ne vorremmo più spesso in questi tempi, quando le tensioni razziali pervadono le società, le periferie urbane prendono fuoco, si discute di legalità ma il tono è quello della rissa manichea. Paul Haggis ha il merito di ricordarci che non sempre la prima impressione è quella che conta. Per prendere a contropiede l’ideologia dominante, tuttavia, deve assumersi qualche rischio. L’intervento del caso nell’organizzare gli incontri delle stesse persone, in un’area metropolitana vasta come quella di LA, non rispetta sempre il criterio della verosimiglianza. Ma lo sceneggiatore-regista cammina sul filo degli eventi senza scivolare mai nel baratro della condiscendenza o dell’effetto-lacrima.


Roberto Nepoti, la Repubblica, 12 novembre 2005

 

In una città vera si cammina, ci si sfiora passando via, la gente viene addosso. Invece, «dietro l’acciaio e il cristallo» di un’auto, il contatto fisico ci manca al punto che «ci scontriamo l’un l’altro, perché così riusciamo a sentire qualcosa». Così, chiuso anche lui in un’auto, dice Graham a Ria, già sulle prime immagini di Crash Contatto fisico.
Costruito come un cerchio narrativo che torna su se stesso il film di Paul Haggis non si preoccupa di delineare fin dall’inizio i suoi personaggi, né di costruire una trama che li renda subito riconoscibili. Al contrario, la sceneggiatura - dello stesso Haggis e di Robert Moresco - privilegia il caso a scapito della trama. O meglio, deriva questa da quello, come se la macchina da presa non fosse niente più che l’occhio d’un osservatore esterno, per quanto privilegiato. Già sceneggiatore di Million Dollar Baby, Haggis lo gira a partire dall’evento su cui poi torna verso la fine: un ingorgo d’auto a Los Angeles e, oltre il ciglio della strada, un cadavere. Da qui, da questo terribile “luogo comune” metropolitano, partono a ritroso i fili di molte storie, anch’esse cerchi che tra di loro si intrecciano, e anzi si urtano e si scontrano. L’occhio del cinema, dunque, prende spunto dall’ingorgo e poi sviluppa alcune delle microstorie che stanno nelle auto intrappolate. (…) Sono molti, appunto, gli uomini e le donne che via via l’occhio della macchina da presa toglie dall’anonimato della metropoli, facendone dei personaggi. E molte sono le cose che li separano, dalla condizione sociale al colore della pelle. Tutti però li unisce un profondo, immediato rifiuto del contatto con l’altro, e d’ogni possibile incontro. Con un paradosso, si può dire che è il razzismo quel che davvero li accomuna. Ognuno è pronto a difendersi dall’altro con il pregiudizio etnico, ancor prima di lasciarsene sfiorare “passando via”. Ognuno, ancora, se ne protegge rifugiandosi in un’appartenenza chiusa, o al contrario fingendo di rifiutarla, magari poi lucrando dell’ipocrisia sociale che trasforma la condanna (pubblica) del razzismo in occasione (privata) di carriera politica. Ma non è il razzismo il cuore di Crash. Esso è piuttosto una sorta di fraintendimento o di occultamento d’un malessere più profondo, e che tutti raggiunge, bianchi e neri, ispanici e asiatici. Questo malessere è fatto di paura e solitudine, di incapacità sia di vedere gli altri sia di lasciarsene guardare. Si alimentano a vicenda, la paura e la solitudine, e così finiscono per imprigionare gli uomini e le donne in un circolo vizioso la cui circolarità, appunto, somiglia molto a quella del film, e al continuo girare in tondo e a vuoto delle sue microstorie.
Non pare che, per Haggis, in tutto questo ci sia la responsabilità piena e diretta dei singoli. Nessuno di loro vuole escludere o umiliare o uccidere nessuno. C’è invece attorno a ognuno, e meglio ancora sotto ognuno una sorta di inferno implicito, inconsapevole, pronto ad aprirsi e a catturarli. Può essere l’impossibilità di alleviare il dolore d’un padre (Jack), o il silenzio in cui si è costretti dalla propria lingua d’origine (Farhad), o anche solo la fatalità di un movimento repentino e inatteso (Tommy e Anthony): questo e altro può essere quel che apre quell’inferno, e che induce a fare e a farsi del male. In ogni caso, su tutto e tutti, come un cielo sempre grigio, sta il sentimento di cui parla Jean: una furia interiore, una rabbia che non conosce motivi, e che esplode per un motivo qualunque, e contro chiunque.
D’altra parte, per motivi anch’essi impliciti e inconsapevoli, può capitare che — come succede a Jack nei confronti di Christine — l’odio lasci il posto alla solidarietà, e che dalla vicinanza con l’altro venga uno slancio verso di lui, uno slancio che è pronto e forte ancor più di quella furia e di quella rabbia. Forse vale qui quel che dice Graham: anche cercare lo scontro è un modo indiretto, e disperato, di incontrare l’altro, di “sentire qualcosa”, comunque.

 

Roberto Escobar, Il Sole-24 Ore, 20 novembre 2005

 

 

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