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Scheda pdf (172 KB)
Il mondo di Horten - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALES.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 7 aprile 2011 – Scheda n. 23 (835)

 

 

 

 

 

Il mondo di Horten

 

 

Titolo originale: O’ Horten

 

Regia e sceneggiatura: Bent Hamer.

 

Fotografia: John Christian Rosenlund. Montaggio: Pål Gengenbach.

Musica: John Erik Kaada.

 

Interpreti: Bård Owe (Odd Horten), Espen Skjønberg (Trygve Sissener),

Ghita Nørby (la signora Thøgersen), Henny Moan (Svea),

Bjørn Floberg (Flo), Kai Remlow (Steiner Sissener),

Nils Gaup (Same), Karl Sunby (Kjell).

 

Produzione: Bulbul Films. Distribuzione: Archibald.

Durata: 90’. Origine: Norvegia, 2007.

 

 

 

Bent Hamer

 

Regista, sceneggiatore, produttore e proprietario della società di produzione Bulbul Film, Bent Hamer è nato a Sandefjord in Norvegia, nel 1956. Si è laureato in letteratura e storia del cinema all’università Filmskola di Stoccolma. Tutti i suoi film sono stati presentati alla Quinzaine des Réalisateurs, a Cannes, a partire dal primo, intitolato Eggs (1995), seguito poi dal fortunato Kitchen Stories (2003, visto al Cineforum) e da Factotum (2005), il film meno convincente dei suoi, per arrivare a questo Il mondo di Horten.

 

La critica

 

Odd Horten, 67 anni, ha il suo posto nel mondo. È un macchinista. Sta seduto davanti alla plancia dei comandi, con la pipa in bocca, e sa cosa deve fare. La stazione di partenza e quella di arrivo, gli orari da rispettare, l’alberghetto che ti aspetta, come sempre, lassù sulla collina. Horten sa che alla fine di ogni galleria c’è sempre la luce. È una bella sensazione – lo vediamo anche noi (in soggettiva, con la mdp, la macchina da presa, che sfreccia in profondità) – sbucare dal nero pesto di un tunnel al bianco accecante delle nevi e dei ghiacci norvegesi (anche se ci capita di pensare che tutta quella luce ha una sinistra affinità col buio…). Il treno è la vita di Horten. È il suo status, che sta scritto sulla divisa e il cappello. E il regista Bent Hamer, uno che non spreca un solo fotogramma (anche quando dà l’impressione di divagare), lo piazza al centro dell’inquadratura, visto leggermente dal basso, nello spazio simmetrico della sua locomotiva. Eccolo lì il suo posto nel mondo, rappresentato plasticamente. Qualche sequenza più in là, una volta che Horten avrà perso ruolo, orari e sicurezze, lo vedremo scentrato, sulla sinistra dello schermo, mentre in mezzo si svolge la vita di un ristorante con le sue storie (lui è uno spettatore come noi); lo vedremo attraversare il campo, sbatacchiato da destra a sinistra e da sinistra a destra, nel non-luogo labirintico di un aeroporto (che sagoma quell’Horten! Se ne sta a fumare nel bel mezzo di una pista di rullaggio, un’insignificante macchia sull’asfalto, un corpo fuori luogo, da osservare col cannocchiale…); lo vedremo addirittura sfrecciare via nel cielo notturno, con gli sci ai piedi, verso le stelle, verso le luci della città, fuori dall’inquadratura (la macchina da presa rimane lì, nel vuoto, e non lo segue neanche più). Non c’è da meravigliarsi se alla fine della storia lo ritroveremo nella sua locomotiva, ma di lato, in disparte, felice di lasciare i comandi a un altro, e di usare il treno per arrivare in un luogo che non è più solo un nome o un compito prescritto, ma è una scelta, una persona che ti aspetta, una nuova vita che inizia. Semplice, no? Eloquente. Lucido. Anche commovente. Perfino divertente. Cinema senza troppi grilli per la testa. Che non ha paura del silenzio e della malinconia. Che ha addirittura il coraggio del lieto fine. Evocate pure chi volete, Kaurismäki o Tati, il gusto dell’assurdo nordico o la comicità catatonica. A far la differenza è la grammatica, la consapevolezza con cui Bent Hamer usa i fondamentali del cinema. Guardando un film come O’ Horten (questo il titolo originale) viene da chiedersi: ma è davvero così difficile fare (buon) cinema? Pensi a certi film italiani – di quelli che aspirano all’umanità vera, all’intimità, alla realtà dei sentimenti (tutte cose che Bent Hamer pratica senza sforzo alcuno) – e quasi non ti sembra vero quanto si possa essere posticci e confusionari, dispersivi e ruffiani, senza un minimo di fiducia nei mezzi del cinema, nel suo linguaggio, tutti lì preoccupati di spiegare, di aggiungere un dialogo esemplare, di fare “poesia” o mettere in scena “l’impegno”.

Il mondo di Horten andrebbe proiettato nelle scuole di cinema, così come Kitchen Stories, a cui è strettamente imparentato (Factotum, il film di cui tutti hanno parlato e scritto, perché dedicato al mito di Bukowski, ci sembra il meno riuscito e coraggioso), e guardato sequenza dopo sequenza, con il bloc notes in mano. E non perché ci siano chissà quali invenzioni linguistiche, o idee di regia spettacolari, o immagini sghembe e montaggio sincopato. A forza di aspirare al capolavoro e al film innovatore o sconvolgente o profondo, si è perso di vista l’ABC. Il treno rosso che passa veloce con dietro la casa blu, come blu è il tappo del thermos dentro cui Horten versa il caffè, nella primissima sequenza senza musica, in cui (in due-tre mosse) entriamo nel suo nido modesto, dove spiccano una tele spenta e una gabbia con un uccellino (il giovane esordiente italiano avrebbe fatto uno stacco in primo piano per sottolineare la similitudine, lui come il volatile imprigionato nella sua vita, oppure avrebbe evitato la metafora, troppo esibita e quindi “volgare”…). Nell’ABC ovviamente sta anche la scelta degli attori, e questo Bård Owe, con gli occhi chiari e stanchi, il viso segnato come fosse una mappa, la pettinatura un po’ ridicola con la riga in mezzo, è una straordinaria presenza, che riesce a far sentire anche l’assenza di cui si nutre il suo personaggio (non è facile stare dentro ogni inquadratura come un fantasma, rimanere impassibili, distanti, come trasparenti, eppure riuscire a comunicare calore). Quando diventa pensionato, è come se il corpo di Horten perdesse il suo centro, e anche la direzione. Vaga indeciso dentro l’inquadratura. Capita perfino che il suo corpo venga letteralmente violato da un controllo di sicurezza all’aeroporto. L’ex macchinista sembra spiazzato dalla vita, che assomiglia a quel palazzo incellophanato, visto dal basso, come fosse una montagna impossibile da conquistare. La sera della festa sarà la sua prima avventura fuori dai binari (l’incontro con un bambino rompiscatole ma a suo modo gentile, solo come lui, che sembrava lì ad aspettarlo e che lo ricatta simulando il rumore di un treno su una batteria…). È finito il tempo degli orari obbligati e dei viaggi che non portano da nessuna parte. Perché il paradosso è che Horten viaggia da tutta una vita, ma in realtà è sempre rimasto fermo. Lo vediamo schiacciato laggiù in fondo, dentro la prospettiva rigida di una tavolata di macchinisti convenuti lì per lui, a fare ciuff ciuff e a indovinare ad orecchio marca e modello di locomotive d’antan. Cosa starà pensando il povero Horten dietro la sua espressione incredula e angustiata? Che sono tutti dei poveri imbecilli? Che sono l’unica cosa che ha? Che lui è come loro, nel senso che è dentro al stessa trappola? Cos’è la sua misera vita in confronto a quella di un meteorite che vaga nello spazio da 4 miliardi di anni? Eppure Horten assomiglia a quel pezzo di universo che alla fine è approdato nel mini-bar di un simpatico pazzo pieno di vita e d’alcool, un altro sconfitto, uno che ama guidare l’auto ad occhi chiusi e fa finta di essere il fratello sano di mente, con un posto nel mondo. È ora che anche quel meteorite ricominci il suo viaggio. Anzi, il suo viaggio non è mai finito. E fra poco tornerà ad essere lanciato nello spazio, sulla rampa di un trampolino di salto con gli sci. «Sembra che quasi tutto nella vita arrivi troppo tardi, ma niente arriva troppo tardi». Non staremo qui a rendere ovvio ciò che è già evidente, in un film trasparente come questo. Nel mondo di Horten non c’è un segreto della vita da rivelare. Non si tratta di fare la morale o di convincerci che anche la terza età ha le sue risorse. Lo sappiamo già che per ritrovarsi a volte bisogna prima perdersi. Quello che ci interessa è la vergogna di Horten, chiuso al buio in casa sua, dopo aver perso il primo treno della sua vita, che poi era anche l’ultimo; il suo viso stralunato, seduto al capezzale di un bimbo prepotente, davanti a una parete tappezzata di poster coi pianeti; la sua uscita di scena dall’istituto dove sta sua madre, lui alla finestra laggiù in fondo, così solo che neanche lei lo riconosce più (quando va al centro benessere e rimane chiuso dentro, invece, diventa il terzo incomodo di una tresca lesbica in piscina…). Ci interessa la scena in cui lui e l’altro ascoltano il motore della barca come fosse un’epifania divina. O il viso di Horten che si illumina di infantile stupore, per quell’amicizia con Trygve nata per caso, da un incontro per strada, lui con le scarpe coi tacchi e l’altro sdraiato sul marciapiede come fosse morto (o forse sta solo guardando il mondo da un’altra prospettiva). L’auto dell’uomo che dice di vedere ad occhi chiusi rimarrà ferma davanti al semaforo verde, nel gelo dell’alba di Oslo. «Anche le stelle devono cadere, a tempo debito». E la vita di Horten rischierà di scorrere via come quel tizio con la valigia in mano, che scivola col sedere per terra, vittima del ghiaccio, in una notte tipicamente norvegese. Apparizioni assurde, divertenti amenità, all’uscita del ristorante Valchiria. Horten scopre che l’incontro migliore fatto nella sua vita recente era fondato su una bugia, un equivoco, una storia disordinata. Ma a quel punto ha già imparato che la vita c’entra poco con gli orari e i ruoli prescritti. Che prima o poi bisogna avere il coraggio di scegliere dove andare. Nel film di Bent Hamer è tutto mostrato, non c’è bisogno di dire niente. Non servono traduzioni o interpretazioni. E il finale, quasi chapliniano, con lui, lei e il cane che si allontanano verso un nuovo avvenire, a 70 anni, suona miracolosamente onesto e giusto. I vecchi salveranno il mondo?

FFabrizio Tassi, Cineforum, n. 486, luglio 2009

 

 

 

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