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Scheda del film (236 Kb)
Jackie - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 22 febbraio 2018 – Scheda n. 18 (1020)

 

 

 

 

Jackie

 

 

 

 

Titolo originale: Jackie

 

Regia: Pablo Larraín

 

Sceneggiatura: Noah Oppenheim. Fotografia: Stéphane Fontaine.

Musica: Mica Levi.

 

Interpreti: Natalie Portman (Jackie Kennedy), Peter Sarsgaard (Bobby Kennedy),

Greta Gerwig (Nancy Tuckerman), Billy Crudup (giornalista),

John Hurt (il prete).

 

Produzione: Jackie Productions. Distribuzione: Lucky Red.

Durata: 100’. Origine: Usa, Cile, 2016.

 

 

Pablo Larraín

 

 

Nato a Santiago del Cile nel 1976, Pablo Larraín è una delle più importanti figure del cinema contemporaneo. Non ha fatto molti film – è giovane – ma non ne ha sbagliato nessuno e ne sforna uno dopo l’altro. Abbiamo visto all’inizio di questa stagione del cineforum il suo Neruda, presentato a Cannes nel maggio 2016; pochi mesi dopo, in settembre, al festival di Venezia, era pronto questo Jackie. Larraín ha studiato comunicazione audiovisiva, ha fondato “Fabula”, la sua compagnia di produzione e nel 2005 ha diretto il suo primo film, Fuga. Il secondo film lo impone all’attenzione: Tony Manero, presentato a Cannes 2008, alla Quinzaine des Realisateurs, si rivela un’opera potente e fuori dagli schemi. Tony Manero è ambientato negli anni della sanguinaria dittatura di Pinochet, vince il Torino Film Festival, viene candidato all’Oscar (ed è presentato al cineforum...). Post Mortem è il terzo film, sulla fine di Allende (2010, passato anch’esso al cineforum...). Del 2012 è No - I giorni dell’arcobaleno, (visto sempre al cineforum...), sulle elezioni con le quali finì la dittatura cilena. Dopo Il club (visto ecc...) è arrivato Neruda (visto ecc...) e subito dopo Jackie (che vediamo stasera sempre qui...).

Sentiamo Larraín: «“Una pallottola ha attraversato il collo del Presidente; una successiva pallottola, letale, ha frantumato il lato destro del cranio. Sua moglie Jacqueline Kennedy, trentaquattrenne, era seduta accanto a lui”. Così le notizie. Cosa avrà provato lei? Tutti conosciamo la storia dell’assassinio di John F. Kennedy. Ma cosa succede se spostiamo la nostra attenzione su di lei? Come saranno stati i giorni successivi per lei, annegata nel dolore, i figli lontani, gli occhi di tutto il mondo puntati addosso? Jackie era una regina senza corona, che perse in un colpo solo trono e marito. Donna piena di stile, desiderabile, sofisticata, Jacqueline Kennedy è stata una delle donne più fotografate e presenti nella cronaca del XX secolo. Eppure sappiamo poco di lei. Estremamente discreta e imperscrutabile, è forse la donna famosa meno conosciuta dell’era moderna. Mi piace pensare che non avremo mai certezze su di lei. Non conosceremo mai il suo profumo. Tutto ciò che possiamo fare è cercare. E mettere insieme un film fatto di frammenti. Brandelli di ricordi. Luoghi. Idee. Immagini. Persone. Il Presidente Kennedy morì giovane: il tempo in cui rimase in carica venne interrotto bruscamente, i pochi successi conseguiti rischiavano di essere presto dimenticati. Persino mentre era offuscata dal dolore della perdita, Jacqueline Kennedy sapeva che qualcuno avrebbe dovuto portare a compimento la sua storia. Nel corso di pochissimi giorni riuscì a trasformare suo marito in una leggenda. Definì la sua immagine e rafforzò quella che sarebbe stata la sua eredità politica. E facendo questo divenne lei stessa un’icona, conosciuta per sempre in tutto il mondo con il solo nome di battesimo, Jackie...

Gli spazi del film, quasi tutti interni, sono un labirinto: lo spazio fisico ha un significato psicologico. La Casa Bianca non è un edificio come gli altri. Abbiamo dovuto ricostruire alcune parti e abbiamo dovuto scegliere su quali stanze soffermarci. I posti che sono finiti nel film sono un’estensione dello stato emotivo della protagonista, della sua elaborazione del lutto. È un film su una donna: ho fatto sette film e sei si concentrano su personaggi maschili, questa è la prima volta che mi immergo negli occhi di una donna. Credo quindi che ogni posto fisico sia un’estensione della sua mente...

Ho scelti di inserire la  trasmissione televisiva in cui Jackie Kennedy mostra la Casa Bianca al pubblico e altre sue apparizioni televisive perché rappresentano lo splendore: sono state girate due anni prima dell’omicidio, nel 1961. Jackie Kennedy fu criticata per aver fatto ristrutturare la Casa Bianca. Per spiegare agli Americani perché lo aveva fatto, girò quel video, raccontando come il denaro per i lavori provenisse da finanziamenti privati, e allo stesso tempo mostrando per la prima volta al mondo cosa ci fosse all’interno della Casa Bianca: nessuno aveva mai visto i suoi interni prima di allora. In quel momento era al suo massimo splendore: ha sempre descritto quei giorni come il momento più felice della sua vita. Mostrare quel programma era necessario per far capire il suo percorso: è in perfetto contrasto con quello che è accaduto dopo, è un paradosso.

Il cinema è fatto di paradossi: mi sembrava interessante mostrare quel momento perché a un primo impatto si potrebbe pensare che Jackie Kennedy fosse una persona superficiale, che si preoccupava solo di arredamento, moda e vestiti, ma se la si guarda con attenzione si scopre una donna brillante, con un grande intuito politico, che parlava quattro lingue, tra cui un perfetto spagnolo, una donna molto sofisticata e misteriosa. Il cinema è fatto anche di mistero: ho letto una montagna di biografie e articoli, visto programmi tv e film, l’intervista che fece con Arthur M. Schlesinger Jr. e, ascoltando i nastri, la sua voce sembra tranquilla: ma, anche dopo tutta questa ricerca, non so chi fosse davvero Jackie Kennedy. Credo che questa sia la chiave di lettura del film: il mistero, impossibile da rivelare completamente, di questa donna. È il pubblico che, guardando il film, completa la sua storia».

 

 

La critica

 

 

Non solo nel West, ma anche alla Casa Bianca ‘se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda’. Con una differenza: che se nel film di John Ford L’uomo che uccise Liberty Valance la ‘leggenda’ che ha spianato la carriera politica del senatore Stoddard ha una bella base di realtà - lui il cattivo l’aveva davvero sfidato a duello - nel film Jackie di Pablo Larraín quel mito lo vediamo costruire ex novo, quasi sul nulla, con una determinazione e una lucidità che affascina e insieme mette un po’ paura. Ma anche con una capacità di scavare nei rapporti tra lotta politica, mezzi di comunicazione e ambizione che fanno dell’ultimo film del regista cileno un appuntamento da non mancare. Specie di nuovo case-history dietro storie di successo (dopo No - I giorni dell’arcobaleno sulla vittoria contro Pinochet nel 1988 e dopo Neruda), Jackie ‘ricostruisce’ quello che è successo nella testa di Jacqueline Lee Bouvier nei giorni immediatamente successivi all’assassinio di Dallas, il 22 novembre 1963. E lo fa attraverso un’intervista - che non saprei dire se mai fu davvero concessa, anche se propenderei per il no - che l’ex First Lady americana (Natalie Portman, grandissima) concede nella sua casa di Hyannis Port, nel Massachusetts, a un giornalista di Life, Theodore H. White (Billy Crudup). Qualche avversario ha già cominciato a mettere in discussione il bilancio politico di Kennedy e lei vuole rivendicarne grandezza e importanza. E per farlo, la sceneggiatura di Noah Oppenheim usa proprio l’intervista, grazie alla quale il film può ricostruire il periodo intercorso tra l’assassinio di Dallas e i funerali a Washington, quando Jacqueline ottenne di seguire il feretro che attraversava la città a piedi, tenendo per mano i figli e senza preoccuparsi delle misure di sicurezza. Sull’esempio del funerale di Abramo Lincoln. A Larraín non interessa l’ennesima ricerca di mandanti e responsabili dell’attentato ma piuttosto il percorso con cui si possono piegare i mezzi di comunicazione di massa al proprio progetto politico. Come la leggenda diventa realtà, avrebbero detto nel vecchio West. Solo che qui siamo nel pieno della Guerra Fredda e la propaganda deve passare per altre vie. Come per esempio la televisione, che il film ricorda essere entrata per la prima volta alla Casa Bianca proprio grazie a Jackie (una trasmissione della Cbs dove Larraìn mescola spezzoni originali ad altri ricostruiti per l’occasione. Perfettamente, bisogna aggiungere). O come l’immaginario collettivo, cui la vedova, dopo la morte del marito, offre se stessa con l’abito della tragedia che non vuole togliersi, sporco di sangue del presidente ucciso (e che da allora è conservato negli Archivi nazionali statunitensi). O ancora la suggestionabilità popolare, cui Jackie regala la favola di Camelot e della sua corte regale. Lei parla del musical di Lerner e Loewe, quello preferito da John Fitzgerald Kennedy, ma sa  benissimo che, citandolo, il passaggio dell’uno dentro il mito dell’altro è praticamente immediato. E che la corona del ‘Re in eterno’ (così si chiamava il romanzo di Terence Hanbury White da cui era tratto il musical) si sarebbe posata anche sulla testa del presidente ucciso.

Girato per buona parte a Parigi, negli studi di Luc Besson dove Jean Rebasse ha ricostruito tutti gli interni, Casa Bianca compresa, e sostenuto da una prova straordinaria di Natalie Portman, mimeticamente magistrale ma soprattutto ammirabile nel rendere la glaciale determinazione e la sofferta bellezza della protagonista nel momento più duro della sua vita (nessuno più di lei meriterebbe l’Oscar), il film di Larraín diventa così il ritratto di una donna che la politica vorrebbe tenere da parte (illuminanti le scene dove entrano in gioco Robert Kennedy,  interpretato da Peter Sarsgaard, Lyndon Johnson e sua moglie Bird, rispettivamente John Carroll Lynch e Beth Grant, e la sua governante Nancy, cioè Greta Gerwig) ma soprattutto ci offre il quadro di come il potere e i mezzi di comunicazione siano ormai intrinsecamente legati, di come una cosa passi attraverso l’altra. E di come l’arte (e il cinema) possano essere strettissimamente uniti nel creare ma anche nell’analizzare quel connubio.

PPaolo Mereghetti, Corriere della sera, 20 febbraio 2017

 

 

 

 

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Un padre, una figlia

 

di Cristian Mungiu

 

 

 

Due i personaggi a confronto, più alcuni altri a fare da contorno. Un padre, Romeo, medico. Sua figlia, Eliza, che studia e vorrebbe andare all’estero, in Inghilterra, con una borsa di studio. Lei deve superare un esame per ottenere il sussidio.

Siamo in Romania e il cinema romeno, da qualche anno, è felicemente e fortemente impegnato nell’indagare vita e problemi del paese con film precisi, profondi e corrosivi: come questo. Premio per la regia a Cannes. Il regista Mungiu presenta le situazioni, non emette giudizi, ce li suggerisce.

Durata: 127’.

 

 

Giovedì 1 marzo, ore 21

Cinema Sociale - Omegna

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