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Scheda del film (213 Kb)
Tanna - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 11 gennaio 2018 – Scheda n. 12 (1014)

 

 

 

 

 

Tanna

 

 

 

Titolo originale: Tanna

 

Regia: Bentley Dean, Martin Butler

 

Sceneggiatura: Bentley Dean, Martin Butler, John Collee.

Fotografia: Bentley Dean. Musica: Anthony Partos.

 

Interpreti: Mungau Dain (Dain), Marie Wawa (Wawa),

Marceline Rofit (Selin), Chief Charlie Kahla (Chief Charlie),

Albi Nangia (Sciamano).

 

Produzione: Martin Butler, Bentley Dean, Carolyn Johnson per Contact Films.

Distribuzione: Tycoon Distribution.

Durata: 104’. Origine: Isole Vanuatu, 2015.

 

 

Bentley Dean e Martin Butler

 

 

Dean e Butler sono una coppia di documentaristi molto affermati nel loro campo. Hanno vinto parecchi premi sia in Australia che in giro per il mondo. Butler ha studiato scienze politiche e economia a Oxford, ha lavorato come manager per gli Who, si è trasferito in Australia e si è messo a girare documentari. Dean ha lavorato come regista e direttore della fotografia per la SBS, poi ha girato documentari di successo come Anatomy of a Coup, The President Versus David Hicks, The Siege, A Well-Founded Fear. Nel 2009 insieme a Martin Butler ha girato Contact, sul primo incontro degli ultimi indigeni del deserto con l’Australia moderna. Insieme hanno poi prodotto, nel 2013, il documentario in quattro parti First Footprints (Prime impronte) sui 50.000 anni di storia aborigena dell’Australia. Quindi hanno lavorato insieme su questo Tanna, presentato alla Mostra di Venezia nel 2015 e uscito in Italia nel 2017.

Sentiamoli. «Il film è nato in modo insolito. Nel 2004, per conto del programma tv australiano Dateline, ho visitato il Monte Yasur, nella catena montuosa di Tanna, nelle isole Vanuatu. Lì, sul ciglio di questo vulcano attivo, mi sono trovato a discutere di geo-politica con il leader del movimento millenarista John Frum dell’isola, un cosiddetto “culto del cargo”, cioè dell’attesa dell’arrivo di un salvatore dall’oceano. Il capo-tribù mi spiegava come stesse cominciando a dubitare che si compisse la profezia del ritorno degli Stati Uniti a Vanuatu, e criticava la loro recente invasione dell’Iraq: “Nella seconda guerra mondiale, qui fermarono i giapponesi. Fecero del bene. Ma perché adesso sono in Iraq? Io penso che sia per soldi”. Proprio in quel momento, come ad un segnale preciso, il vulcano sputò lava e ceneri in una grande eruzione. Forse in risposta ai miei occhi spalancati, il capo-tribù Isaac mi rassicurò: “Tanna è un’isola proprio speciale”. Ha ragione. Con una superficie di 550 km quadrati, ospita foreste pluviali, spiagge di sabbia bianca o nera, coralli fantastici, splendidi piani di ceneri vulcaniche; ma ospita anche uno dei sistemi di credenze più particolari al mondo: tra tutte le isole del Pacifco, Tanna è probabilmente quella in cui il “Kastom”, che è il complesso delle loro credenze, è seguito in maniera più forte. Mi ricordo di aver pensato che sarebbe stato fantastico trovare una scusa per fermarsi più a lungo, imparare di più e magari un giorno girare qui un film. Ci consigliarono di visitare il villaggio di Yakel per discutere la nostra idea. Fummo accolti calorosamente dagli uomini, tutti vestiti in “nambas” (guaine per il pene) e invitati a bere “kava”. Non avevano mai visto un film, mostrammo loro Dieci canoe di Rolf De Heer, un film australiano sugli aborigeni, per far capire che volevamo fare un film basato sulle loro storie, scritto e recitato da loro. Ci dissero: “Possiamo cominciare domani?”...

La scelta degli attori fu semplice. Il capotribù Yakel impersona il capotribù Yakel, capo Charlie. Lo stregone impersona lo stregone. Tutti erano d’accordo che Mungau impersonasse il protagonista, Dain, perché era il più bello; lui, però, era terrorizzato al solo pensiero di dimostrare affetto con una donna in pubblico, cosa per loro assolutamente tabù. La stupenda Marie Wawa, che impersona Wawa, era davvero speciale, ma ci è voluto un bel po’ a trovarla. Tutte le altre ragazze all’audizione riuscivano a malapena a guardare Mungau negli occhi ed erano lontane anni luce dall’adolescente decisa che il ruolo richiedeva...

La tribù pacificatrice e la tribù testimone sono state prese da tribù vicine. Sorprendentemente, gli uomini pensavano che il ruolo della tribù nemica, gli Imedin, dovesse andare alla tribù con cui gli Yakel stavano davvero avendo una sanguinosa disputa territoriale. Intravedevano in questa opportunità un gran potenziale: così come le tribù nemiche si riconciliavano nel film, sarebbe successo lo stesso a loro. Un attore del film, Lingai, attraversò allora la valle per chiedere il sostegno dei rivali, ma il loro capo rifiutò e lo insultò, vennero alle mani, poi alla fine si risolse tutto con un incontro in cui si scambiarono maiali e kava...

Nessuno degli attori è alfabetizzato. Così Tanna è stato girato in maniera singolare. Prima di girare ogni scena chiedevamo a tutti i presenti cosa sarebbe successo nella vita reale. Lasciavamo sempre spazio per le performance spontanee che venivano loro così bene...

Ogni volta che abbiamo girato sul vulcano – lo spirito madre, Yahul – è stata per me un’esperienza memorabile. Non c’era bisogno di alcuna finzione: ogni eruzione era molto reale e a volte spaventosa. Yahul, il vulcano, è molto umorale. Alla nostra prima visita ha distrutto la cinepresa con uno schizzo di pioggia acida!...

Quando mostrammo il film agli interpreti e a tutti i membri delle tribù, si misero a discutere e il giorno dopo ci dissero: “Sappiamo che siete venuti qui con il vostro materiale e l’idea di fare un film, ma vi informiamo che lo consideriamo il nostro film. Aiuterà a mantenere forte il Kastom”. Ci congedarono donandoci un pollo e una radice sacra di kava».

 

 

La critica

 

 

Si fa esperienza di una sensazione insolita quando si è messi di fronte a Tanna, selezionato l’anno scorso dalla Settimana della Critica veneziana e poi nominato agli Oscar per il miglior film straniero. Una sensazione che cresce man mano che si procede nella visione, sorpresi e affascinati al contempo dalla distanza che esiste tra le immagini e i personaggi, tra il fascino (e la bellezza) della natura selvaggia in cui si svolge il film e la selvaggia primitività dei suoi attori. La macchina da presa è la guida per entrare in una specie di paradiso perduto, il cui fascino si ingigantisce grazie all’eleganza delle riprese, alla ieratica composizione delle inquadrature, alle sfumature e al contrasto dei colori, anche se poi lo sguardo è come risvegliato dall’inattualità dei corpi e dei volti che in quel mondo incantato si muovono e agiscono. La ragione di questo iato è presto spiegata. Tanna, che dà il titolo al film, è anche il nome di un’isola delle Vanuatu, arcipelago ancora preservato dal turismo di massa e dalla speculazione, a nord-est dell’Australia, tra le isole Fiji, la Nuova Caledonia e le isole Salomon, conosciuto in passato come Nuove Ebridi e liberatosi nel 1980 dal doppio protettorato francese e inglese. Qui, nel 2004, sono arrivati due documentaristi australiani, Bentley Dean e Martin Butler, immediatamente conquistati dalla bellezza dell’isola e dalla vita ‘primitiva’ di alcune tribù locali ancor oggi rispettose del Kastom, specie di arcaica cosmogonia fatta di regole, credenze, canzoni e strutture patriarcali. Inutile aggiungere che nessuno dei locali sapeva nemmeno lontanamente cosa fosse il cinema che i due registi hanno mostrato su un lap-top quando l’idea di girare un film su quell’isola e con quelle persone ha cominciato a prendere consistenza. Lo spunto è stata una storia realmente avvenuta nel 1987, quando una coppia ha rifiutato di obbedire alle regole del Kastom, mettendo in discussione per la prima volta il fatto che i matrimoni nell’isola potessero essere decisi solo dagli anziani, che spesso offrivano ai maschi delle tribù vicine le proprie donne per suggellare un’alleanza o una pace. Anche se poi il passaggio dalle suggestioni letterarie (impossibile non pensare a Giulietta e Romeo) alla realizzazione del film è costato molti mesi di preparazione, necessari per abituare chi doveva fare l’attore ad accettare la presenza della macchina da presa e ignorarla per evitare sguardi in macchina e altri problemi. Vestite solo di paglia le donne, spesso con i seni nudi, e solo di un folcloristico ‘copripene’ gli uomini, facciamo così la conoscenza di Wawa e Dain, lei nipote dello sciamano e lui del capotribù, la cui attrazione reciproca non è certo un segreto, nonostante le abitudini locali proibiscano (per pudore e non certo per decenza) che uomini e donne si corteggino in pubblico. I due si vedono già sposati se non fosse che l’inimicizia con la vicina tribù degli Imedin ha un’improvvisa e sanguinosa recrudescenza e l’unico modo per ritrovare la pace è offrire Wawa, di cui abbiamo visto la festa per l’ingresso nell’età adulta, come sposa per il figlio del capotribù Imedin. Così vuole il Kastom e così sembra naturale a tutti, visto che matrimoni per amore non sono contemplati dalla tradizione e il mancato rispetto della promessa può causare nuovi scontri e morti. Come faranno allora i due innamorati? Anteporranno alla loro felicità il bene collettivo o sceglieranno di disubbidire e condannarsi a una vita sempre in fuga? Quello che qui si riassume in pochissime righe viene affrontato dal film con altro ritmo, più attento a rispettare le cadenze quotidiane della vita tribale e soprattutto a ritrovare quella comunione tra uomo e natura che è all’origine della cultura locale e di tutti i loro comportamenti (il fascino di morte del vulcano, la bellezza incontaminata della giungla, il radicamento delle proprie tradizioni e delle proprie usanze), a restituire un mondo bellissimo e lontanissimo al cui interno gli indigeni-attori sembrano a volte spaesati e a volte integrati. Così da restituire sullo schermo quello strano senso di straniamento che fa di questo film un oggetto difficile da classificare, a metà documentario, a metà melò, ma tutto intero favola e sogno.

PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera,  1 maggio 2017

 

 

 

 

 

 

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Loving

 

di Jeff Nichols

 

 

In concorso lo scorso anno al Festival di Cannes, Loving racconta di un uomo bianco della Virginia che nel 1958 sposò l’amata e nera Mildred, violando le leggi dello Stato del Sud che proibivano i matrimoni misti. La coppia fu arrestata e condannata e affrontò una lunga battaglia legale durata quasi dieci anni.

Due film, questo e il prossimo Agnus Dei, per ricordare, per tenere viva la memoria.

I Loving sono persone semplici, lui muratore, lei domestica. Vogliono vivere la loro relazione alla luce del sole e condurre un’esistenza tranquilla. Un film classico sulle lotte per i diritti civili negli USA.

Durata: 123’.

 

 

Giovedì 18 gennaio 2018, ore 21

Cinema Sociale - Omegna

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