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Scheda del film (183 Kb)
Fuocoammare - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 1 dicembre 2016 – Scheda n. 8 (983)

 

 

 

 

 

 

Fuocoammare

 

 

 

Regia: Gianfranco Rosi

 

Soggetto: Carla Cattani, Gianfranco Rosi.

Fotografia: Gianfranco Rosi, Aldo Chessari

Montaggio: Jacopo Quadri, Fabrizio Federico

 

Interpreti: Samuele Pucillo, Mattias Cucina, Samuele Caruana,

Pietro Bartolo, Giuseppe Fragapane, Maria Signorello,

Francesco Paterna, Francesco Mannino, Maria Costa:

tutti nel ruolo di loro stessi.

 

Produzione: 21Uno Film. Distribuzione: Istituto Luce – Cinecittà, 01.

Durata: 108’. Origine: Italia, 2016.

 

 

Gianfranco Rosi

 

 

Nato ad Asmara, in Eritrea, Gianfranco Rosi ha nazionalità italiana e statunitense. Ha frequentato l’università in Italia, poi si è trasferito a New York nel 1985 dove si è diplomato alla University Film School. Il suo primo mediometraggio è Boatman (1993), girato dopo un viaggio in India. Il film riscuote molto consenso nei festival internazionali. Nel 2001 esce Afterwords. Del 2008 è il suo primo lungometraggio, Below Sea Level, girato a Slab City, in California, nel deserto, in un posto – appunto – sotto il livello del mare. Il documentario vince numerosi premi. Del 2010 è El Sicario Room 164, un filmintervista su un killer pentito dei cartelli messicani del narcotraffico. Del 2013 è Sacro Gra, Leone d’oro a Venezia. Infine arriva Fuocoammare che ha vinto l’Orso d’oro a Berlino ed è stato nominato dall’Italia all’Oscar per il miglior film straniero.

Sentiamo Rosi: « L’accoglienza a Berlino è stata positiva al di là di ogni previsione. Non me l’aspettavo. Uno che filma la morte reale è una cosa terribile, davvero un azzardo. Però quando l’ho messa nel film mi sono sentito con la coscienza pulita. Metterla era fondamentale, ma pensavo che avrebbe creato più divisioni. Invece non è successo nulla, forse perché nel film non c’è gratuità, è come una conquista: pian piano arrivi accompagnato al momento della tragedia. Il pubblico ha applaudito in sala in mezzo al film, durante il momento della visita con Bartolo...

Se fossi rimasto a Lampedusa tre settimane non sarei stato in grado di fare il film. Il tempo è sempre fondamentale nello sviluppo dei miei film. Il film viene scritto girando, non c’è mai una cosa scritta su carta. Fuocoammare è come una partenogenesi, un film che si è autoindotto, autofecondato. Nessuna scena era mai stata scritta, concepita, prima che si palesasse davanti alla cinepresa. E qui sta la meraviglia: quando dico che il mio film è un documentario è perché tutto nasce sempre dalla realtà. Io le chiamo le deità dei documentaristi: qualche volta ti regalano delle cose totalmente stupende, per quello che accade davanti alla cinepresa. L’incontro tra Bartolo e Samuele, tra il ragazzino e il medico, io credo che nessuno scrittore, nessun sceneggiatore, nessun attore, nessun regista potrebbe metterlo in scena in quel modo lì. Per quello dico che nasce come un miracolo davanti alla lente. Ed è quello che mi stimola nel mio lavoro. La realtà s’impone con una forza che va al di là del pensiero...

Sono sempre situazioni di gioco. Quando eravamo in un posto con i cactus a costruire la fionda, c’era una faccia già fatta da qualcuno, e i ragazzini hanno preso questo come spunto: è diventata l’invenzione di un’invenzione, e ogni volta veniva fuori una metafora fortissima. Il film è un po’ uno stato d’animo: sono delle sensazioni, delle emozioni costanti che ci riportano da un’altra parte, a qualcosa che anche noi lentamente scopriamo: l’occhio pigro, l’ansia, l’esercito, la guerra, il taglio del cactus che poi viene rappezzato con lo scotch. Sono tutti elementi che ci riportano alla nostra impossibilità di agire, di leggere, di guardare, di avere lucidità nei confronti di quella che è una delle più grosse tragedie a imporsi di fronte ai nostri occhi. E questi sono incontri sempre un po’ fatali. Situazioni e personaggi che nascono per caso e poi, nell’arco del tempo delle riprese, diventano una necessità. Sono come dei piccoli innamoramenti: ho incontrato prima Samuele e dopo cinque minuti ho saputo che sarebbe stato parte del film. Non sapevo con quale estensione, con quale forza, ma dopo cinque minuti sapevo che sarebbe entrato nel film. Poi c’è stato l’incontro con Bartolo, il medico: Bartolo è anche un po’ la chiave, l’unico che ha il contatto con il quotidiano, con il mondo oltre Lampedusa. E poi c’era sempre l’idea di raccontare il viaggio di una nave. Queste tre storie erano il punto di partenza, un’idea molto precisa che poi è stata rispettata nel film. Ma gli incontri sono sempre casuali, anche se poi diventano parte della narrazione del film. Il tempo del film è il tempo dei personaggi, la storia dei personaggi. A Berlino qualcuno mi ha detto: le parole chiave di questo film sono tre: l’amore, la passione e la compassione. La compassione del medico, l’amore di Maria per il marito – quando fa il letto, prepara il pranzo – e la passione di Samuele. Perché Samuele ci trasporta verso la sua passione. O anche attraverso la sua impossibilità di confrontarsi con il mare, di vivere in un’isola di pescatori come Lampedusa e soffrire il mare.

Il primo incontro, però, è stato con l’isola stessa. Paradossalmente, appena ci arrivai, l’incontro fu abbastanza sorprendente perché a Lampedusa, conosciuta al mondo come un’isola dei migranti, di quest’ultimi non c’era assolutamente traccia. Il centro d’accoglienza era chiuso per ristrutturazioni. Ho incontrato così quest’isola trasformata, vuota, con l’eco della tragedia, con l’eco della migrazione, con qualcosa che accadeva “oltre” Lampedusa. Il mio approccio è stato realmente all’isola in attesa di qualcosa. Quando ho cominciato a girare avevo creato questa totale separazione: fondamentale, perché il primo sguardo è stato appunto il racconto dell’identità dell’isola in modo che non fosse soltanto un contenitore conosciuto attraverso l’immigrazione, ma anche attraverso il suo tessuto umano. Il film scorre attraverso tre livelli di narrazione, tre storie che s’intrecciano ma non s’incontrano mai: c’è il centro di accoglienza, uno spazio vuoto in mezzo all’isola, c’è la storia di Samuele e degli altri personaggi, e poi c’è la storia del salvataggio in mezzo al mare, questa nave che parte fino all’incontro con la tragedia...

Raccontare la tragedia non è stato facile nel film. A Berlino mi chiedevano: qual è la differenza tra il fare un film come il tuo e un’inchiesta? Chi fa un’inchiesta o un documentario va sempre a occuparsi del disastro, della catastrofe, il momento in cui accade. Io sono arrivato sull’isola con l’eco di un disastro, poi pian piano nel corso del tempo ho fatto il mio incontro con il disastro. E quando l’ho incontrato per me si è come chiuso il film. Ho detto: non posso più aggiungere nulla, adesso devo montarlo, devo consegnare questo materiale ad altri. Il film è una testimonianza. Una testimonianza dei nigeriani all’interno del centro. Lì c’è la sintesi di tutte le storie della nave».

 

 

La critica

 

 

Bisognerebbe dimenticare il termine ‘documentario’ che sempre più spesso sta diventando sinonimo di ‘inchiesta’ e considerare Fuocoammare per quello che è: un film a tutti gli effetti. Con quello che ne consegue: nessuna tesi da dimostrare, tante cose invece da far vedere. Anche se il campo d’azione del regista Gianfranco Rosi è l’isola di Lampedusa, che la maggior parte degli italiani associa immediatamente al problema degli sbarchi di clandestini, all’accoglienza dei migranti, alle lotte politiche (e alle propagande elettorali) che accendono i titoli dei giornali e i talk show televisivi. No, Fuocoammare, presentato ieri tra applausi e standing ovation alla Berlinale, è altra cosa, talmente diversa che rischia di spiazzare lo spettatore. “Ha spiazzato anche me Lampedusa - confessa il regista -. Ero arrivato sull’isola alla fine del 2014 per girare un corto che mi aveva chiesto l’Istituto Luce. Ho impiegato più di un mese per capire che non potevo farlo, poi l’incontro casuale con il medico legale Pietro Bartolo - avevo preso una brutta bronchite - e con le storie che ha raccontato, mi ha aperto gli occhi: dovevo fare un’altra cosa”. E il film registra questo percorso di avvicinamento che poi è un percorso di conoscenza: prima l’isola con i suoi abitanti, poi il dramma degli sbarchi. L’obiettivo di Rosi inizia così a raccogliere facce e personaggi: il piccolo Samuele che preferisce la terra all’acqua, gioca con la fionda e deve imparare come resistere al mal di mare; Pippo, il dj di Radio Delta che manda in onda le canzoni e le dediche scelte dai lampedusani; la zia Maria, che venera Padre Pio; e poi il pescatore subacqueo di ricci, lo zio Francesco che invece pesca nell’Atlantico, la nonna Maria che prepara la pasta con i calamari per Samuele...

“Ognuno di loro mi svelava qualcosa che non mi aspettavo e che mi legava alla realtà di Lampedusa e ai suoi drammi”, spiega il regista a chi gli chiede come ha selezionato i personaggi da mettere nel suo film. “Quando scopro, filmando Samuele, che ha ‘un occhio pigro’ non posso non pensare alla ‘pigrizia’ del nostro  sguardo, che osserva quel che succede a Lampedusa un giorno o due e poi dimentica in fretta. E cosa vogliono dire i suoi attacchi d’ansia, di soffocamento?”. Allo stesso modo la compassione cristiana di zia Maria per quello che accade sui barconi allarga il film alla sensibilità di tutti gli isolani e alla loro non ostentata generosità. Come il gioco di Samuele e del suo amico che prima distruggono le pale dei fichi d’india con la fionda e poi le ‘curano’ con il nastro adesivo: ‘mi ha fatto pensare alla politica dell’Europa, che prima crea i problemi e poi cerca di porvi riparo’. L’ingresso nel film del medico con i suoi ricordi strazianti e le immagini apocalittiche dell’abbordaggio da parte della Marina Militare di un barcone alla deriva, con il suo carico di corpi vivi e morti, diventano il percorso coerente e necessario di chi vuole raccontare la realtà di Lampedusa e non sfruttarne l’impatto per far colpo sullo spettatore. Anche i campi d’accoglienza sono filmati con pudore e rispetto. Non c’è mai voyeurismo nelle immagini di Rosi, piuttosto lo sforzo di mostrare quello che occhi troppo ‘pigri’ fingono di non vedere. Grazie a un cinema che si identifica per prima cosa in uno strumento di conoscenza e non di propaganda o di assoluzione e condanna.

PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 14 febbraio 2016

 

 

 

 

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Giovedì 15 dicembre, ore 21

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