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Scheda del film (173 Kb)
American Hustle - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 4 dicembre 2014 – Scheda n. 9 (930)

 

 

 

 

American Hustle

 

 

 

Regia: David O. Russell

 

Sceneggiatura: David O. Russell, Eric Warren Singer. Fotografia: Linus Sandgren.

Musica: Danny Elfman. Montaggio: Jay Cassidy, Crispin Struthers, Alan Baumgarten.

 

Interpreti: Christian Bale (Irving Rosenfeld), Bradley Cooper (Richie DiMaso),

 Amy Adams (Sydney Prosser), Jennifer Lawrence (Rosalyn Rosenfeld),

Jeremy Renner (Carmine Polito), Louis C.K. (Stoddard Thorsen),

Robert De Niro (Victor Tellegio), Anthony Zerbe (il senatore Horton Mitchell).

 

 Produzione: Atlas Entertainment, Annapurna Pictures. Distribuzione: Eagle.

Origine: Usa, 2013. Durata: 138’.

 

 

David O. Russell

 

 

Newyorkese, nato nel 1958, esordisce nel 1994 con la commedia Spanking the Monkey, premiata al Sundance (su una relazione incestuosa tra un vivace studente universitario e la madre depressa). Russell ama le situazioni originali, pericolose, anche assurde. Succede anche nella successiva commedia Amori e disastri (1996) con un entomologo, sposato con una collega e padre di un neonato, che decide di scoprire chi sono i suoi veri genitori. Three Kings (1999) è una amara e anche un po’ drammatica commedia di guerra in stile pop. Sempre bizzarro è I love Huckabees (2004), storia di un ragazzo ecologista che si impressiona per le coincidenze che gli capitano. Nel 2010 esce The Fighter, film che lancia definitivamente David O. Russell, storia di un pugile e del fratello allenatore. Ancor più successo raccoglie Il lato positivo (2012, visto al Cineforum), commedia amara su di un uomo che ha perso la moglie e il lavoro dopo il ricovero in un istituto psichiatrico, uomo che viene ‘salvato’ da una ragazza parecchio svirgola appassionata di ballo.

Sentiamo Russell: «Abbiamo pensato e lavorato molto sull’ambientazione. Fin nei particolari, le capigliature per esempio e gli abiti. Per ogni personaggio abbiamo immaginato come fosse la sua casa o le sue aspirazioni e li abbiamo vestiti a seconda di esse, a seconda di quello che vorrebbero essere. La costumista ha vestito tutti in due maniere: come pensavano di essere e come volevano essere. Del resto la nozione del costruirsi un’identità è quella su cui il film è più focalizzato. E ognuno nella vicenda ha due identità. Questo perché hanno a che fare con chi sono stati, gli errori che hanno fatto e i sogni che hanno avuto. Irving, il protagonista interpretato da Christian Bale, ovviamente è un maestro dei sogni degli uomini e della loro identità ed è bravo nella costruzione del proprio sé, ma abbiamo guardato ad ogni personaggio in questa maniera. Ad esempio Ritchie, l’agente dell’FBI, guardava il baseball e quindi si fa i ricci perché pensa sia fico e anche lui, come i truffatori, ha un palco dove è l’agente che desidera essere e un dietro-le-quinte che è casa sua dove è quello che è. Amy Adams ha addirittura un personaggio con tre identità: la persona che viene da Albuquerque, quella inglese che recita e la sua vera se stessa che sta dentro e si chiede chi sia in realtà».

 

 

La critica

 

 

Lasciato in inglese (pur con il sottotitolo L’apparenza inganna) il titolo originale, American Hustle si potrebbe tradurre con ‘imbrogli all’americana’ oppure ‘furbata all’americana’ perché nell’espressione gergale sono presenti entrambi quei significati: di truffa ma anche di colpo d’ingegno. Mancherebbe, a rigor di logica, una terza sfumatura, quella del ‘senso della misura’, del non voler fare il passo più lungo della propria gamba. Che forse per il protagonista del film è la regola più importante. Irving Rosenfeld, infatti, che conosciamo prima ancora dei titoli di testa mentre nasconde con meticolosa perizia un parrucchino sotto i riporti (un’altra straordinaria prova di Christian Bale) è uno di quegli americani che nel post Watergate hanno imparato a sfruttare a proprio vantaggio le ambizioni e le paure degli altri: piazza un dipinto ‘antico’ a uno, millanta entrature finanziarie a un altro e in questo modo se la passa più che bene. A migliorare la situazione arriva un giorno Sydney Prosser (Amy Adams, anche lei magnifica), venuta dalla povertà come Irving e come lui pronta a sfruttare ogni occasione che le si presenti: la passione che li unisce diventa complicità e insieme i due architettano truffe e imbrogli molto redditizi. Fino al giorno in cui un ‘cliente’ (Bradley Cooper) nasconde in realtà l’agente dell’Fbi Richie DiMaso, che per non denunciarli li obbliga a collaborare con lui: ha bisogno di qualcuno che faccia da esca per smascherare la corruzione della politica. In particolar modo quella dell’ambizioso Carmine Polito (Jeremy Renner) che ha costruito le sue fortune sull’impegno a rilanciare l’area di Atlantic City e i suoi casinò. La storia è vera: è quella del ‘caso Abscom’ che tra il 1978 e il 1981 smascherò un giro di mazzette e legami mafiosi grazie alla collaborazione del truffatore Melvin Weinberg. Ma, come dice una didascalia all’inizio del film, ‘solo qualcosa di tutto questo è accaduto veramente’ e scoprirlo non è neanche la cosa più importante. Perché quello che interessa a David O. Russell (già regista dei notevoli Three Kings, The Fighter e del sopravvalutato Il lato positivo) non è la ricostruzione in chiave realistica (o poliziesca) di un fatto di cronaca quanto, piuttosto, la possibilità di giocare con uno dei sottogeneri più popolari della new Hollywood - il poliziesco con ‘infiltrazioni’ mafiose - per metterne in ridicolo i pilastri portanti, come se una tipica storia da bravi ragazzi ‘scorsesiani’ fosse declinata con i ritmi e le ironie della commedia. Ci mette subito sull’avviso la prima scena, con quel soffermarsi più del necessario sul parrucchino, così come la scelta di sottolineare l’inelegante epa di Rosenfeld: quello non è un ‘eroe del male’ ma neanche il genio della ‘stangata’; è piuttosto un povero  cristo finito in un gioco più grande di lui, mentre il regista sembra divertirsi a intralciargli la strada con sempre nuovi problemi. Perché DiMaso non è un ‘semplice’ agente dell’Fbi, ma un megalomane, convinto di essere una specie di super-eroe della Giustizia quando non è neanche capace di tener testa alla madre. Così come a un certo punto lo spettatore scopre che il protagonista ha una moglie (Jennifer Lawrence) che sembra la quintessenza dell’oca giuliva e che non smette un istante di rovinare i piani del marito. Per non parlare del vero colpo da maestro: l’entrata in campo di Robert De Niro nei panni di un boss occhialuto e calvo, cui il film regala una delle gag migliori. Il risultato (dopo una serie di colpi di scena che ribaltano continuamente la situazione, tra scenate di gelosia, tradimenti, minacce mafiose e sogni di carriera) è quello di un film che si reinventa continuamente mentre prova a riflettere su quell’intreccio tra voglia di successo e compiacimento narcisistico (Cooper con i bigodini in testa per arricciarsi i capelli strappa l’applauso) che forse è la chiave più vera per capire l’America che stava elaborando i traumi del Vietnam e del Watergate mentre iniziava a cedere alle chimere dell’‘edonismo reaganiano’. Il risultato però non sarebbe così riuscito senza la prova superlativa di tutto il cast: Bale calvo e ingrassato è uno spettacolo in sé, Bradley Cooper e Jeremy Renner sanno restituire con un mimetismo stupefacente quel misto di volgarità e ostentazione che è la cifra più nascosta di quel periodo (affascinante e inelegante come i vestiti che indossavano). Ma la mia palma personale va alle due interpreti femminili, una determinata, aggressiva (anche nelle scollature del suoi vestiti) ma fragile nei suoi sentimenti, l’altra ingenua eppure spavalda nel rivendicare le proprie ragioni, entrambe straordinarie nell’interpretare due ruoli che avrebbero potuto cadere nella macchietta e che invece sanno reggere perfettamente per forza di ironia e di bravura.

PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 31 dicembre 2013

 

È sempre molto interessante vedere un regista che si volge indietro e cerca di raccontare qualcosa che non ha visto, sentito, provato. Questo ultimo film di David O. Russell si getta a capofitto negli anni Settanta per raccontare di due truffatori che diventano ciò che in Italia chiameremmo collaboratori di giustizia, ma che non cambiano nonostante questo passaggio la loro natura. Per un regista attratto dalla bizzarria di personaggi in crisi affettiva, come il protagonista di Il lato positivo, o più in generale alla ricerca di un senso come i due memorabili detective dell’anima di I Love Huckabee, questo salto indietro è assai curioso. Una curiosità verso questi aspetti condivisa con gli altri nomi eccellenti della sua generazione, come Paul Thomas Anderson, Wes Anderson, David Fincher. Anche per loro il salto all’indietro ha significato andare negli anni Settanta, quelli in cui loro erano bambini e stavano crescendo. È lì che si sono formati i problemi che innervano la loro poetica di registi, ed è lì infatti che vanno a cercare degli archetipi, finendo per trovarli o per illudersi di trovarli in divi del porno losangelino come in Boogie Nights di Paul Thomas Anderson (...).

Forse è stato l’ultimo tra i grandi registi della sua generazione a essere riconosciuto come tale fuori dall’America. Certo, qui David O. Russell dimostra una rara, a tratti prodigiosa capacità di disegnare caratteri, definendoli con tic, movenze, caratteristiche così da renderli perfettamente funzionanti dentro trame sempre aggrovigliate di accidenti, scherzi del destino, tentativi di liberarsi dalle proprie tare genetiche o mentali. Russell non è interessato a fornirci una visione morale, una lezione di cui tenere conto; però nel gioco tra la coppia Irving/Sydney e Richie c’è anche la manifestazione di una libido verso chi se ne sbatte della carriera e del riconoscimento pubblico e vive secondo le proprie regole. Che non sono totalmente giuste, ma non possono neanche essere totalmente sbagliate. Sono solo diverse da quelle che c’erano prima. Al sogno americano possono in fondo essere date tante accezioni, forse anche quella di chi vive ai margini della legalità. Forse anche in queste c’è un lato positivo.

GGiancarlo Mancini, Cineforum, n. 531, gennaio-febbraio 2014

 

 

 

 

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