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Scheda del film (173 Kb)
Tutti pazzi per Rose - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 24 aprile 2014 – Scheda n. 27 (921)

 

 

 

 

Tutti pazzi per Rose

 

 

 

 

Titolo originale: Populaire

 

Regia: Régis Roinsard

 

Sceneggiatura: Régis Roinsard, Daniel Presley, Romain Compingt.

Fotografia: Guillaume Schiffman. Montaggio: Laure Gardette, Sophie Reine.

Musica: Rob, Emanuel D’Orlando.

 

Interpreti: Romain Duris (Louis Échard), Déborah François (Rose Pamphyle),

Bérénice Bejo (Marie Taylor), Shaun Benson (Bob Taylor),

Mélanie Bernier (Annie Leprince Ringuet), Nicolas Bedos (Gilbert Japy),

Miou-Miou (Madeleine Échard).

 

Produzione: Les Productions Du Tresor. Distribuzione: Bim.

Durata: 111’. Origine: Francia, 2012.

 

 

Régis Roinsard

 

 

Nato a Louviers (Eure) nel 1972, Régis Roinsard ha studiato all’ESEC, Ecole Supérieure d’Études Cinématographiques, a Parigi. Primi  corti: Les Petits-Salés (1995) e Madame Dron (1998). Poi, videoclip per alcuni cantanti francesi. Del 2004 è il dvd Rendez-vous avec Jane per Jane Birkin. Populaire, titolo originale di Tutti pazzi per rose, è il suo primo lungometraggio.

Sentiamo Roinsard: «Ho sempre avuto voglia di raccontare storie attraverso le immagini. Quando ero al liceo fotografavo le persone che i miei compagni consideravano strane e passavo tutto il mio tempo a registrare i film che venivano trasmessi in televisione per poterli esaminare in dettaglio in un secondo momento. Poi ho studiato cinema e in seguito mi sono cimentato in tutti i mestieri cinematografici: macchinista, scenografo, fonico, ecc. Volevo confrontarmi con la realtà tecnica della costruzione di un film. Nel giro di breve tempo, ho girato il mio primo cortometraggio, a cui ne sono seguiti altri tre e mentre lavoravo al terzo ho iniziato a realizzare spot pubblicitari, videoclip e documentari musicali. Intanto continuavo a coltivare l’idea di passare al lungometraggio. Il motivo per cui ho impiegato tanto tempo per riuscirci è stato che volevo a tutti i costi innamorarmi di una storia. Poi, nel 2004, mi è capitato di vedere un documentario sulla storia della macchina per scrivere che comprendeva una piccolissima sequenza sui campionati di velocità dattilografica: quei brevi trenta secondi mi hanno talmente affascinato che ho subito percepito le potenzialità cinematografiche e drammaturgiche di quel tema e quindi ho cominciato subito a delineare la trama. L’universo della dattilografia mi sembrava folle: trovavo incredibile che fosse potuto diventare uno sport ed ero incantato dal rapporto uomo/macchina. All’inizio avevo soltanto la giovane campionessa e il personaggio maschile non esisteva. Ma avevo già immaginato che lei venisse da un villaggio e le avevo dato il nome di una delle mie nonne. Come Rose, anch’io vengo da una piccola città della Normandia e Parigi, per me, rappresentava la metropoli inaccessibile...

Sono affascinato dagli anni ’50 sul piano estetico, musicale, letterario e cinematografico. Prova ne è che amo molto film recenti ambientati in quel periodo, come Pleasantville o Peggy Sue si è sposata. Gli anni ’50 sono caratterizzati da un’atmosfera particolare che segna sia l’esordio della società dei consumi per gli adolescenti, con la nascita del rock’n roll e l’evoluzione dei codici di abbigliamento, sia i primi passi dell’intrattenimento e delle sponsorizzazioni negli eventi sportivi. È anche il periodo successivo alla guerra durante il quale la disoccupazione quasi non esisteva e l’avvenire sembrava roseo, malgrado la situazione mondiale fosse più cupa di quanto non la si volesse vedere. Gli anni ’50 sono stati un decennio strano in cui la gente, che usciva dal conflitto mondiale, preferiva non affrontare gli eventi drammatici che si verificavano nel mondo, cosa che è stata costretta a fare solo a partire dal decennio seguente. È anche un decennio che segna una svolta sul piano sociologico e culturale: gli anni 1958-59 precedono immediatamente l’inizio dell’emancipazione femminile. Due o tre anni dopo, le gonne si sono accorciate e le donne si sono posizionate in modo diverso nel mondo del lavoro. E questo vale anche dal punto di vista della moda: per esempio, i modelli simbolo di Ray-Ban li portiamo ancora oggi. E poi l’ossessione per la velocità è nata in quel periodo: i record di velocità in automobile si moltiplicavano e si sono costruiti i primi aerei supersonici...

Volevamo ricreare gli anni ’50 mescolando l’aspetto documentario, il cinema dell’epoca che amo, in particolare i film americani, e l’immagine fantastica che ha la gente di quel periodo. Tutto quello che riguarda i protagonisti trae ispirazione dal cinema e dalla fantasia, attingendo ai codici di cineasti quali Billy Wilder e Douglas Sirk, e più ci si allontana dalla cerchia dei personaggi principali, più ci si avvicina a una visione documentaria. Per esempio, i ruoli secondari e le comparse sono ancorati in una visione realistica poiché abbiamo voluto che avessero profili e fisionomie tipici dell’epoca».

 

 

La critica

 

 

D’accordo, la Francia è la Francia. Lì il cinema è anche un affare di Stato, in senso buono. Esistono strutture e finanziamenti adeguati, i Césars sono premi veri che contano, a differenza dei David di Donatello o dei Nastri d’argento; soprattutto si vendono ancora oltre 200 milioni di biglietti all’anno, per la precisione 204 nel 2012 e 211 nel 2011, contro i 100 scarsi italiani, con una popolazione di poco maggiore. I francesi saranno sciovinisti, pomposi, a volte un po’ arroganti, le star percepiscono cachet da sballo che mandano fuori controllo i conti, e tuttavia il loro cinema ama rischiare. Alla fine vince anche all’estero, se è vero che con soli tre film, Taken - La vendetta, Quasi amici e The Artist, lo scorso anno hanno venduto fuori dei confini nazionali qualcosa come 140 milioni di biglietti. Giovedì scorso è uscito in Italia Tutti pazzi per Rose di Régis Roinsard, un quarantenne al suo debutto nel lungometraggio. Uomo fortunato, visto che l’opera prima in questione è costata 15 milioni di euro, praticamente come La migliore offerta di Giuseppe Tornatore. Un’esagerazione? Secondo i parametri italiani, sì. Ma tenete conto che la commedia è ambientata sul finire degli anni Cinquanta, con un’ossessione maniacale agli ambienti, ai costumi, agli oggetti, alle riviste, tra gran via vai di auto d’epoca sotto la Tour Eiffel e scene di massa in un teatro americano. Per raccontare una storia divertente e appassionante, quantunque bizzarra, che nessun produttore italiano - si accettano scommesse - avrebbe mai accettato di finanziare: un campionato di velocità dattilografica. Erano gare molto in voga all’epoca, non solo in Francia: il Cha-cha-cha della segretaria, che echeggia spiritosamente nel film, cambiava ritmo per trasformarsi nel rock’n’roll Be-Bop-A-Lula quando c’era da pestare freneticamente i tasti delle macchine per scrivere, se possibile superando il record statunitense delle 512 battute al minuto. Certo, c’è di mezzo l’amore, in una deliziosa chiave sportivo-romanzesca, un po’ alla Rocky, che bordeggia la favola sentimentale evocando allo stesso tempo il femminismo; e il gioco cinefilo-nostalgico è attivato bene, con le citazioni esteticamente giuste, da Sabrina a Un amore splendido, passando per Come sposare un milionario e il francese Peccatori in blue-jeans. Tuttavia non ci sono dubbi: se uno sconosciuto cineasta quarantenne avesse presentato il copione di Tutti pazzi per Rose a produttori italiani di successo, l’avrebbero preso per matto. Non vale solo per la Francia: checché se ne dica col senno di poi, Full Monty di  Peter Cattaneo, diventato un successo planetario, da noi non sarebbe stato preso neanche in considerazione, infatti il produttore italiano Uberto Pasolini vive e lavora nel Regno Unito. Del resto, il cinema francese, come quello britannico o americano, non teme affatto il ‘costume’, il salto negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Basterebbe pensare a titoli come Le donne del 6° piano di Philippe Le Guay, Potiche - La bella statuina di François Ozon, Qualcosa nell’aria di Olivier Assayas, per alcuni versi anche La cuoca del presidente di Christian Vincent. Nel Bel Paese, invece, a parte film politici come La prima linea o Romanzo di una strage, si preferisce evitare, per contenere i costi, oltre che per inveterato scetticismo nei confronti del pubblico. E quando si fanno delle eccezioni, vedi l’ambizioso La kryptonite nella borsa di Ivan Cotroneo o il grottesco È stato il figlio di Daniele Ciprì, il risultato è quello che è: abbastanza deludente. Il francese Alain Attal, invece, Tutti pazzi per Rose, in originale Populaire dal nome di una macchina per scrivere costruita in Francia dalla Japy, l’ha prodotto eccome: con ampiezza di mezzi, senza badare a spese, coinvolgendo attori come Romain Duris, Déborah François, Bérénice Bejo, gli stagionati Miou-Miou e Eddy Mitchell. Gli incassi l’hanno ripagato. Ci si augura che anche il pubblico italiano, dopo la festosa anteprima allo scorso Festival di Roma, risponda all’appello. Tutti pazzi per Rose è uno di quei film dai quali si esce felici di aver pagato i biglietto: perché apre uno squarcio curioso su uno ‘sport’ sconosciuto ai più, e allo stesso tempo investiga in chiave universale sulle strettoie dell’amore e i dilemmi dell’esistenza. Tutto si svolge tra il 1958 e il 1959, quando, invece di accettare un matrimonio di convenienza che la renderebbe casalinga docile e devota, la ventunenne Rose Pamphyle lascia il paesello in Normandia per fare la segretaria a Lisieux, presso l’ufficio di un ricco e carismatico assicuratore, tal Louis Echard. Come segretaria la fanciulla si rivela un disastro, ma batte a macchina a velocità supersonica: e il dettaglio non sfugge al suo boss, che, dopo un tosto training, decide di iscriverla ai campionati di velocità dattilografica. Il resto potete immaginarlo. Se Romain Duris è un volto noto in patria, la belga ventiseienne Déborah François si conferma, dopo film drammatici come L’enfant e Student Services, attrice versatile, di carattere, perfetta nei vestiti color pastello e coi capelli biondi raccolti a chignon: quasi un mix di Audrey Hepburn, Grace Kelly e Kim Novak, con una punta di ribellione anticonformista che non guasta.

MMichele Anselmi, Il Secolo XIX, 3 giugno 2013

 

 

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