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Quartet - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 13 marzo 2014 – Scheda n. 21 (915)

 

 

 

 

Quartet

 

 

 

 

 

Titolo originale: Shadow Dancer

 

Regia: Dustin Hoffman

 

Sceneggiatura: Ronald Harwood, dalla sua commedia omonima.

Fotografia: John de Borman. Montaggio: Barney Pilling. Musica: Dario Marianelli.

 

Interpreti: Maggie Smith (Jean Horton), Tom Courtenay (Reginald Paget),

Billy Connolly (Wilf Bond), Pauline Collins (Cecily Robson),

Michael Gambon (Cedric Livingstone), Dame Gwyneth Jones (Ann Langley),

Sheridan Smith (la dottoressa Cogan), Andrew Sachs (Bobby Swanson),

David Ryall (Harry), Trevor Peacock (George).

 

Produzione: Headline Pictures, BBC. Distribuzione: BIM.

Durata: 98’. Origine: Gran Bretagna, 2012.

 

 

Dustin Hoffman

 

 

Nato a Los Angeles nel 1937, Dustin Hoffman cresce in una famiglia ebraica di origini ucraine e romene, con il padre allestitore di scenografie per la Columbia Pictures e poi rappresentante di mobili e la madre pianista jazz. Comincia a studiare medicina, lascia, si trasferisce a New York per studiare recitazione e comincia a esibirsi con i giovani Gene Hackman e Robert Duvall, poi si iscrive all’Actor’s Studio. Esordisce nel cinema come attore nel 1967 in Il laureato di Mike Nichols. Ed è subito grande successo con la candidatura all’Oscar e al Golden Globe come miglior attore protagonista. Il successo è raddoppiato con Un uomo da marciapiede di John Schlesinger (1969). Vengono poi Il piccolo grande uomo di Arthur Penn (1970), Cane di paglia di Sam Peckinpah (1971), anche un film in Italia, Alfredo, Alfredo di Pietro Germi (1972), Papillon con Steve McQueen (1973), Lenny di Bob Fosse (1974), Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula (1976, 4 Oscar). Vince l’Oscar nel 1980 con Kramer contro Kramer di Robert Benton. Arriva ancora un ennesimo successo con Tootsie di Sidney Pollack (1982), dove Hoffman recita in panni femminili. Secondo Oscar per l’interpretazione in Rain Man – L’uomo della pioggia di Berry Levinson, accanto a Tom Cruise. Dopo una lunga serie di film non proprio all’altezza dei precedenti (Dick Tracy, Billy Bathgate, Hook - Capitan Uncino di Steven Spielberg, Virus letale, Sesso e potere, Sfera, Confidence, La giuria, Vi presento i nostri), nel 2012 esordisce dietro la macchina da presa come regista dirigendo questo Quartet.

Sentiamo Dustin Hoffman: «Volevo trovare un copione che mi piacesse, per il mio esordio alla regia. E mi sarebbe piaciuto che il film si facesse in Gran Bretagna. Mi fu proposto il copione della commedia e della sceneggiatura di Ronald Harwood, un testo che dipendeva molto dalla bravura degli attori. Iniziai a leggere il copione su un aereo e appena lo finii mia moglie mi guardò, mi vide in lacrime e mi chiese perché stessi piangendo. La mia risposta fu semplicemente ‘devi leggerlo’. Io non piango mai e sono un critico piuttosto severo! Pensai che dovevo assolutamente dirigerlo...

Una volta qualcuno ha detto ‘la vecchiaia non è divertente’. Man mano che il corpo invecchia, diventi più vulnerabile, ma io ho sempre creduto che l’anima possa espandersi. Ho quasi 75 anni e penso che possano capitarti tre cose se hai la fortuna di vivere così a lungo: maturi, regredisci o rimani uguale, che per me equivale a regredire. Ma è realmente possibile maturare. Quartet è come uno spaccato nella vita di un gruppo di persone al loro ‘terzo atto’ che hanno ancora tanto da dare...

Ho iniziato a studiare recitazione a New York nel lontano 1958 ed è così che ho conosciuto un attore disoccupato come me che si chiama Robert Duvall. Uno dei suoi fratelli era un cantante lirico e dividevamo la stanza tutti e tre insieme, quindi ho avuto modo di conoscere un po’ i cantanti lirici. L’opera però cominciai ad apprezzarla più tardi. Ricordo che una sera andai a sentire un’opera senza saperne niente. Era Carmen, con Jessye Norman: stavo seduto ad ammirarla mentre cantava un’aria e non mi rendevo conto che stavo piangendo da circa un minuto. Non mi era mai successo prima di avere una reazione del genere. Non sapevo cosa stesse cantando, ma stava facendo una cosa celestiale, una cosa sovrumana...

Il fulcro del film è costituito dall’umorismo e dallo spirito. Billy Wilder diceva che ‘se vuoi dire la verità al pubblico, ti conviene farlo in modo divertente’. Ho scritto questa citazione sul mio copione e l’ho letta ogni singolo giorno. Nel cast c’è un trombettista che si chiama Ronnie Hughes, che ha più di 80 anni, e quando lo vedi soffiare nel suo strumento resti a bocca aperta. Mi ha detto che non gli capita spesso di lavorare perché nessuno lo chiama. Ma il suo dono, il suo talento e il suo spirito restano immutati...

Quello che ho imparato dirigendo il film è quanto sono stato ingenuo nei 45 anni che ho passato davanti alla macchina da presa! Non avevo idea dei meccanismi che sono in gioco dalla parte del produttore e del regista e che nulla hanno a che vedere con le immagini che poi si vedono sul grande schermo. L’incubo di una catastrofe è costantemente presente. Ho imparato quello che devono sopportare, malgrado fingano ogni giorno che vada tutto a meraviglia per non demoralizzare nessuno. Non sei tu che finisci il film: è il film che finisce te. Non credo di aver mai compreso fino in fondo queste dinamiche prima di essermi trovato in questa posizione...

Maggie Smith è una leggenda vivente. Non c’è mai stata una come lei prima e non ce ne sarà un’altra dopo. È un’artista completa in tutti i sensi. Non tollera compromessi e difende strenuamente la possibilità di esprimere le sue eccellenti capacità al meglio.».

 

 

La critica

 

 

Il tempo passa per tutti, anche per gli artisti. Anzi, forse chi coltiva l’arte, tesa com’è essa verso un’idea ancestrale di perfezione e annullamento degli ostacoli, soffre ancora di più il venir meno di energia, avvenenza, impeto. È quello che succede ai protagonisti del film di Dustin Hoffmann, settantacinquenne, due volte premio Oscar, che, da parte sua, conserva ancora il coraggio e l’energia per mettersi in gioco, passando dietro la macchina da presa per dirigere un’opera frutto di meccaniche sapienti e rodate. Molto del merito di questa perfezione nel congegno è senza dubbio di Ronald Harwood, già autore della pièce teatrale da cui prende spunto Quartet, e sceneggiatore di film molto ben scritti come Il pianista e Lo scafandro e la farfalla. Ma non solo. Quartet è un film di storia e di attori, e c’è qualcosa di deliberato in questa scelta del regista – prima attore con un nome altisonante – di non esserci. Un’assenza che il risultato finale, così efficace in relazione agli obbiettivi che sembra prefiggersi, non si fa certo rimpiangere, mentre ci lascia gentilmente orfani di stati d’animo e giochi di incastri, messi in scena da un team di eccellenti attori inglesi, ai quali ci eravamo già pienamente affezionati. Beecham House è una residenza per anziani musicisti, un ricovero che accoglie chi non ha potuto o saputo costruirsi un futuro dignitoso contando sulle sole proprie forze, e che adesso trova nella compagnia di persone con i suoi stessi interessi e un orizzonte simile di ricordi la strada migliore, e più agevole, per percorrere la vita restante. Wilf ha avuto un ictus tempo fa, ma questo accidente non ha lasciato in lui gravi conseguenze se non quella di togliere diverse tacche al suo senso del pudore: adesso se gli scappa non esita a tirarsi giù i pantaloni esattamente dove si trova, e non si fa alcun scrupolo a tormentare le giovani presenze femminili che governano la casa di riposo. Cecily, invece, sembra una bimba impaurita e insieme entusiasta il primo giorno di scuola: si muove con fare nervoso e le mani aggrappate alla sua immensa borsa-amuleto, passaporto per la stabilità e il ricordo. Soffre di Alzheimer, probabilmente (ma il film non nomina né sottolinea malattie o disagi fisici, casomai li attraversa senza soffermarvisi, parlando d’altro), e ogni tanto si perde nei suoi pensieri, ma è un’amica fedele e punto di riferimento imprescindibile per il comitato per il Gran Galà che si tiene annualmente in occasione del compleanno di Giuseppe Verdi, anche se arriva puntualmente tardi a tutte le riunioni. Il membro più stabile del terzetto è Reginald, trasferitosi per ultimo nella residenza, anche per amore dell’amico Wilf. Reginald è l’elemento normalizzatore del gruppo: seda le esuberanze di Wilf, colma le lacune in cui si imbatte la mente di Cecily, garantisce a costo di litigare che il posto nel tavolo vicino alla finestra sia sempre libero per lui e i suoi due preziosi amici. Ma proprio nel bel mezzo dei preparativi del Gran Galà arriva Jean a completare il quartetto e rendere fragile il pilastro Reginald: compagna dei tre nel celebre Rigoletto di Verdi, era stata moglie-lampo di Reginald, tradendolo poche ore dopo le nozze, e aveva scelto una carriera di eccellenza e solitudine alla ricerca di quella eterea e isolata perfezione artistica di cui sopra. Jean arriva a Beencham House con il suo carico ancora montante di disillusione per la gioventù oramai sepolta e una maturità impietosamente sfiorita, decisa a fare uso della musica che rimane solo come arma di quello che fu per difendersi dall’ora, salvo poi, a poco a poco, scoprire che la beffa più grande è credere che per lasciare un ricordo altisonante di sé valga la pena non allentare mai le redini, non cantare ancora una volta a occhi chiusi.

Quartet non è un film commovente sulla vecchiaia, né un’ode alla buona musica. È un’occasione lieve orchestrata e performata da abili mestieranti per riascoltare buona musica mentre ci accarezza l’idea, banale, pretestuosa e necessaria, che anche da vecchi si possa essere felici.

EElisa Baldini, Cineforum, n. 522, marzo 2013

 

 

 

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