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Scheda del film (172 Kb)
Bellas mariposas- Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 12 dicembre 2013 – Scheda n. 10 (904)

 

 

 

 

 

Bellas mariposas

 

 

 

Regia e sceneggiatura: Salvatore Mereu

 

Soggetto: dal romanzo omonimo di Sergio Atzeni.

Fotografia: Massimo Foletti. Montaggio: Paola Freddi.

Musica: Train to Roots, Balentes, Noemi, Cesare Cremonini.

 

Interpreti: Sara Podda (Cate), Maya Mulas (Luna),

Davide Todde (Gigi), Simone Paris (Tomio),

Luciano Curreli (il padre di Cate), Maria Loi (la madre di Cate),

Micaela Ramazzotti (la coga Aleni).

 

Produzione e distribuzione: Viacolvento.

Durata: 100’. Origine: Italia, 2012.

 

 

Salvatore Mereu

 

 

Nato nel 1965, a Dorgali, in Sardegna, Salvatore Mereu ha studiato al DAMS di Bologna e poi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Ha diretto tre corti, Notte rumena (1996), Miguel (1999) e Il mare (2004). Nel 2004 ha vinto il David di Donatello come miglior regista esordiente per il suo Ballo a tre passi (2003, premiato a Venezia, visto al Cineforum), film composto da quattro episodi, uno per ogni stagione dell’anno e ognuno con un diverso sguardo sulla sua isola. Il secondo film è Sonetaula (2008), dal romanzo di Giuseppe Fiori. Dopo Tabajone, bel documentario su un’esperienza scolastica, è arrivato Bellas mariposas, presentato alla Mostra di Venezia del 2012 e accolto da applausi a non finire. Il film è stato prodotto autonomamente dal regista con pochi aiuti esterni. Anche la distribuzione del film viene curata di persona da Mereu.

Sentiamo il regista: «Il film è tratto dal racconto omonimo di Sergio Atzeni. Partire da un testo scritto è un grande vantaggio per certi versi ma per altri è anche un’insidia. La parola scritta non sempre ubbidisce alla narrazione cinematografica. La voce narrante, lo sguardo in macchina sono già nel racconto e non potevo assolutamente rinunciare a questi due strumenti. Però il testo si presenta come un’operazione ardita, non usa la punteggiatura e neppure il dialogo, è quasi un linguaggio da letteratura sperimentale. La scommessa era ardua perché la trama del racconto di Atzeni è esile e lieve di quella leggerezza di cui parlava Italo Calvino. Allora mi sono avvicinato al racconto con l’atteggiamento del documentarista. Io poi non appartengo a quell’area geografica che pure dista soltanto 150 chilometri di distanza da dove sto io. Sono due mondi distanti che per molto tempo non si sono neanche parlati. Qualcuno ha detto che Cagliari, per noi sardi dell’interno, è il confine dal resto del mondo. Ed è così che sono andato a girare a Cagliari dopo aver lavorato al film in altre parti della Sardegna. Gli attori li ho trovati andando nelle scuole e in alcuni casi insegnandoci. Siccome il cinema non mi ha mai garantito da vivere, io ho sempre insegnato. Un anno l’ho fatto in due scuole medie della periferia di Cagliari dove ho insegnato educazione all’immagine e abbiamo poi realizzato quell’esperienza portata due anni fa a Venezia, Tajabone. Abbiamo provato il testo come in una recita scolastica e poi abbiamo trovato la misura in cui affrontarlo. Le due interpreti hanno lavorato in progressione ed è stato girato in modo cronologico. E il lavoro che ho fatto con le due attrici di Bellas mariposas è simile a quello che avevo fatto con gli alunni per Tabajone. Così i miei film sono sempre un po’ finzione, un po’ documentario e un po’ film-diario... Ho ambientato il film nel quartiere di Sant’Elia, a Cagliari, e  non è stata una scelta facile. Nel romanzo di Atzeni il quartiere ha un nome inventato, Santa Lamenera, e stando alle testimonianze biografiche, dovrebbe essere il quartiere di San Michele, in cui il futuro scrittore passò la giovinezza. Confesso che, dopo la tentazione iniziale di girarlo proprio lì, ho cercato soprattutto delle enclaves ancora unitarie: dei paesi-quartiere. Alla fine ho scelto Sant’Elia, che ha un impatto scenografico straordinario e che facilmente, proprio per la sua architettura tipica dell’edilizia popolare degli anni Settanta e Ottanta, può essere universalizzata. È Scampìa a Napoli o Tor Bella Monaca a Roma, ma anche tutte le periferie urbane del mondo...

Cate è anche una voce narrante e io ho voluto rispettare, finché è stato possibile, l’idea di un personaggio narrante e protagonista, che quasi si rivolge agli spettatori. Per il resto, il film rispetta l’andamento picaresco di Atzeni. Quanto ai dialoghi, ho cercato di rimanere fedele alle parole del libro, senza farne un feticcio. Mi rendo anche conto che, soprattutto a Cagliari, il romanzo Bellas Mariposas è un cult e dunque ci saranno tantissime persone che giudicheranno il film in base al tasso di fedeltà al romanzo e alle sue parole. Ma un regista deve pretendere che si giudichi il film autonomamente. Il romanzo è stato pubblicato nel 1996, ed è ambientato, presumibilmente, una decina di anni prima. Io l’ho trasposto ai nostri giorni, senza difficoltà. Credo anzi che questo abbia aumentato l’universalità della vicenda. La vita dei personaggi descritti da Atzeni la si può ritrovare facilmente nelle attuali periferie urbane di ogni parte del mondo. Le vere difficoltà sono state di ambientazione, per così dire, tecnologica. Nel romanzo, un ragazzo innamorato scrive una lettera all’amata. Oggi non lo fa nessuno: si manda una email, un sms, o un post su facebook... Prima di girare mi sono trasferito a Cagliari per oltre un anno. Non mi aspettavo che Cagliari mi piacesse tanto. E non parlo solo della città da film commission, ovvero dei quartieri storici di Castello e del Poetto, ma proprio della sua essenza metropolitana: il cemento di Sant’Elia, lo stadio, le rampe d’accesso che scavalcano il canale. Per uno come me che viene da un mondo giansenista, culturalmente rigido, senza sorriso, con gli uomini che lavorano tutta la vita per lasciare qualcosa ai figli, osservare la vitalità esagerata dei cagliaritani, il loro modo di vivere alla giornata è stata una sorpresa. E un’altra sorpresa è stata scoprire che a Cagliari ci sono tante sardegne e si parlano tutte le varianti del sardo. Si viene assorbiti dalla città, ma si rimane legati ai luoghi di provenienza».

 

 

La critica

 

 

«… e invece il 3 di agosto è stato il giorno dell’ammazzamento di Gigi del quinto piano l’innamorato mio», ci dice Caterina detta Cate. Poi arresta il monologo, ci guarda dritto negli occhi e decide, senza tanti convenevoli, che saremo i destinatari della sua confessione: «Mi sei simpatico questa storia la racconto a te che hai buona memoria». Sguardo e parole in macchina, inequivocabile gesto d’interpellazione che ci chiama in causa come interlocutori immediati. Come la Cate dell’omonimo racconto si rivolge con chiara e divertita sincerità allo scrittore Sergio Atzeni, così la protagonista del film interagisce con noi spettatori invitandoci a entrare in scena, sederci e ascoltare quello che ha da dirci. Il gesto d’interpellazione, infatti, non ha nessun tipo di motivazione all’interno della narrazione: non è riassorbito e giustificato da un controcampo che sveli un interlocutore all’interno della finzione. Lo sguardo di Caterina, quindi, cerca e trova l’altro sguardo oltrepassando lo schermo, chiamando in causa quel complice sottile che si muove ai margini della scena. Il contatto è avvenuto, con una formula spiazzante, incandescente e allo stesso tempo interdetta. Salvatore Mereu, deciso a rispettare l’andamento dialogico del testo di Atzeni, chiamando in causa lo spettatore, guardandolo direttamente negli occhi, compie volutamente l’infrazione di un ordine canonico, un’azione di disturbo al normale andamento del racconto cinematografico. (...)

Da subito Bellas mariposas cerca di evadere, strabordando oltre i margini consentiti. Siamo di fronte a un personaggio, Caterina, che cessa di consegnarsi docilmente alla vista di chi lo osserva, ma che reagisce a sua volta guardandoci. Scoprendoci visti, ci scopriamo a nostra volta oggetto di uno sguardo altrui. (...)

Siamo catapultati in un brulicante sottobosco popolare, babele di miti sottoproletari metropolitani, microcriminalità, bande di quartiere, droga e sessualità spiccia. La periferia è punto d’osservazione privilegiato sul mondo. Un quartiere che è un alveare di voci, dove a risuonare è una lingua connotata da una sintassi veloce e sincopata, un pastiche verbale, in cui l’italiano è contaminato con il sardo, a sua volta declinato in uno slang di bassofondo; un vero e proprio laboratorio linguistico capace di rispettare i codici del testo di Atzeni, sostanzialmente privo di punteggiatura, senza dialoghi e senza un intreccio preciso, in forma di lunghissimo monologo a cuore aperto. Caterina è il centro attorno a cui gli altri elementi ruotano, porta avanti personalmente il racconto, passa senza soluzione di continuità dalla posizione di conduttrice a quella di elemento di finzione, per poi ritornare al posto iniziale. È sempre in scena, allontana coloro che, invadendo l’inquadratura, la distraggono dal filo della narrazione. La sua posizione le permette di padroneggiare i comportamenti degli altri personaggi. Quella di Bellas mariposas è una vicenda semplice e lineare, costruita con un procedimento di accumulo: alla storia centrale ne sono legate altre, antecedenti, parallele; storie condensate nei diversi volti che si affacciano nella vita della protagonista. Il film oscilla perciò tra racconto individuale e canto collettivo: attraverso il percorso di Cate, Mereu racconta la storia di uno spaccato urbano e della sua gente.

MMatteo Marelli, Cineforum, n. 526, luglio-agosto 2013

 

 

 

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