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Scheda pdf (164 Kb)
The Artist - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 11 ottobre 2012 – Scheda n. 1 (867)

 

 

 

 

 

The Artist

 

 

 

Regia e sceneggiatura: Michel Hazanavicius.

 

Fotografia: Guillaume Schiffman.

Montaggio: Anne-Sophie Bion, Michel Hazanavicius.

Musica: Ludovic Bource.

 

Interpreti: Jean Dujardin (George Valentin), Bérénice Bejo (Peppy Miller),

John Goodman (Al Zimmer), James Cromwell (Clifton),

Penelope Ann Miller (Doris), Missi Pyle (Constance),

Beth Grant (Cameriera), Stuart Pankin (Otto, regista),

Bitsie Tulloch (Norma), Calvin Dean (Signor Sauveur).

Produzione: La Petite Reine. Distribuzione: BIM.

Durata: 100’. Origine: Francia, 2011.

 

 

 

Michel Hazanavicius

 

Ecco un film che ha suscitato grandi entusiasmi, che ha incassato moltissimo in tutto il mondo, che ha ricevuto una vera e propria pioggia di premi: e che ha diviso fortemente la critica. È un film davvero importante o è soltanto un oggetto lezioso frutto di un’operazione furba e compiaciuta? Agli spettatori la risposta.

Parigino, classe 1967, Michel Hazanavicius cresce con il fratello Serge, destinato a diventare un bravo attore francese, poi comincia a lavorare per la televisione con i Nuls, un gruppo comico molto famoso in Francia con il quale continua a collaborare a lungo. Fa lo sceneggiatore di film tv e dal 1992 firma la regia di show, serie e spot pubblicitari. Dirige un cortometraggio, Échec au capital (Scacco al capitale) e, nel 1999, il suo primo lungometraggio Mes amis. Arriva al successo in Francia con OSS 117, Le Caire, nid d'espions (OSS 117, Il Cairo nido di spie, 2006), parodia alla francese di James Bond, film che ottiene un tale risultato economico da meritarsi un seguito, sempre diretto da Hazanavicius, OSS 117 - Rio ne répond plus (OSS 111, Rio non risponde più, 2009), film anche questo di grandi incassi. Nel 2011 scrive e dirige The Artist, film finto antico sul cinema muto che viene venduto in tutto il mondo, vince un’infinità di premi internazionali e cinque Oscar, miglior film, regia, colonna sonora, costumi e interpretazione maschile (più altre cinque nomination).

Ecco qualche dichiarazione del regista. «All’inizio, sette - otto anni fa, coltivavo la fantasia di realizzare un film muto. Probabilmente perché i grandi cineasti leggendari che ammiro di più vengono tutti dal cinema muto: Hitchcock, Lang, Ford, Lubitsch, Murnau, il Billy Wilder sceneggiatore... Ma soprattutto perché una scelta di questo genere impone a un regista di affrontare le proprie responsabilità e di adottare un modo molto particolare di raccontare una storia. Non è più compito dello sceneggiatore o degli attori raccontare la storia: spetta solo al regista farlo. È un tipo di cinema dove tutto passa attraverso le immagini, attraverso l’organizzazione dei segni che un regista trasmette agli spettatori. E poi è un cinema molto emozionale e sensoriale: il fatto di non passare per un testo ti riporta a una modalità di racconto estremamente essenziale che funziona solo sulle sensazioni che sei in grado di creare. È un lavoro appassionante. Mi sembrava una sfida magnifica e sentivo che se fossi riuscito a portarla a termine, sarebbe stato molto gratificante. Dico che era una fantasia più che un desiderio perché ogni volta che ne parlavo suscitavo solo reazioni divertite e non venivo mai preso davvero sul serio. In seguito, il successo dei due film OSS 117 ha fatto sì che la medesima frase «vorrei fare un film muto» non fosse più recepita allo stesso modo... Quando ho iniziato a riflettere su come sarebbe stato questo film muto, ho capito di avere due possibilità. O fare un film di puro divertimento, interamente ludico, quasi gratuito, o fare un film su temi meno leggeri, probabilmente più difficile da realizzare, ma questa alternativa mi attirava quasi di più perché mi permetteva di allontanarmi completamente dai due OSS 117, un passo necessario visto che per questo film muto avevo voglia di lavorare di nuovo con Jean Dujardin ma non volevo fargli rifare le stesse cose. Non volevo che il progetto venisse percepito come un capriccio o una trovata e ho quindi cercato di immaginare una storia che giustificasse in qualche modo il formato. Ho iniziato a lavorare sull’arrivo del cinema parlato... Non faccio film per riprodurre la realtà, non sono un cineasta naturalista. Mi piace creare uno spettacolo e che la gente provi piacere nel goderselo, consapevole che si tratta proprio di intrattenimento. Mi interessa la stilizzazione della realtà, la possibilità di giocare con i codici. È così che ha preso forma a poco a poco questa piccola idea di un film ambientato nella Hollywood di fine anni ’20 e inizio anni ’30 e che quindi sarebbe stato muto e in bianco e nero. In realtà, l’ho scritto molto velocemente, in quattro mesi. Non credo di aver mai scritto una sceneggiatura tanto in fretta... Durante la scrittura non ho smesso di pormi delle domande squisitamente registiche: come faccio a raccontare questa storia sapendo che non posso mettere cartelli ogni venti secondi? Se ci sono troppi sviluppi, se la trama si amplia troppo, se ci sono troppi personaggi, se l’intreccio è troppo complesso, sul piano visivo non ne vieni fuori. È stato questo l’aspetto più complicato. Ho quindi visto e rivisto numerosi film muti per cercare di assimilarne le regole e comprendere la sfida che dovevo affrontare. Ben presto mi sono reso conto che non appena una storia diventa poco chiara, il ritmo si perde. È davvero un tipo di cinema che non perdona, soprattutto oggi... Ho visto e rivisto tanti grandi film muti. I film di Murnau e soprattutto Aurora che non a caso è stato a lungo considerato il più bel film della storia del cinema, e Il nostro pane quotidiano che, personalmente, tendo a prediligere. I film di Frank Borzage che sono un po’ nello stesso solco, anche se sono invecchiati di più. Murnau è atemporale, persino moderno. Peraltro, sia Borzage sia John Ford erano stati incoraggiati dal loro produttore William Fox, il fondatore della Fox, ad andare a vedere lavorare Murnau che aveva fatto venire in America perché era considerato “il miglior regista del mondo”. Dopo quell’esperienza, Ford realizzò un film magnifico, L’ultima gioia, che assomiglia davvero a un film di Murnau, come se fosse realmente la risposta di un regista a un altro regista. È molto toccante. All’inizio, ho guardato un po’ di tutto, i tedeschi, i russi, gli americani, gli inglesi, i francesi, ma in fin dei conti è stato soprattutto il cinema muto americano a nutrirmi di più, perché l’ho sentito più affine e perché è stato quello che ha imposto subito una certa realtà, una certa prossimità, nei personaggi e nella storia. La folla di King Vidor ne è un esempio molto commovente, come lo sono i film di Chaplin. Ma Chaplin è talmente al di sopra di tutti che non mi sono fidato, perché credo che tutto quello che è vero per lui è vero soltanto per lui. La sua opera è totalmente unica. E poi ci sono anche il film di Von Stroheim. Uno dei miei film preferiti è di Tod Browning, Lo sconosciuto, con Lon Chaney. Ci sono anche dei Fritz Lang assolutamente incredibili. Anche se non hanno nulla a che vedere con il film che ho fatto io, mi hanno arricchito moltissimo... Adesso sono orgoglioso innanzitutto che il film esista! E che assomigli all’idea che ne avevo. Trovo che sia un bell’oggetto, che mantenga la sua promessa».

 

 

 

La critica

 

 

In epoca di cinema tridimensionale e fascinazioni digitali, può succedere che a far parlar di sé sia un’operazione che vada a situarsi all’opposto degli apparati spettacolari più tecnologici e diffusi della nostra epoca. È il caso di The Artist, film che trova la propria originalità nella rielaborazione e reinterpretazione, oltre che nell’adozione rigorosa, delle attrazioni non del cinema di ultima generazione ma di quello, altrettanto seducente, dell’epoca del muto. Certo, fare un film muto nel 2011 è operazione rischiosa e che già di per sé si espone facilmente a critiche e storcimenti di naso. E lo sarebbe ancor di più se il regista cercasse di rivestire la propria pellicola di manierismi o di autoreferenzialità di stampo cinefilo. Hazanavicius, invece, non indugia su ammiccamenti e citazionismi pur non tralasciando alcun particolare del cinema dei tempi che furono, dalla rinuncia al colore, al quadro con formato Academy, all’uso delle didascalie e la ripresa dei titoli di testa ‘sintetici’ tipici dell’epoca, concentrandosi maggiormente sul racconto, filtrato da un’intertestualità metacinematografica, del cinema visto più come oggetto che come soggetto. La storia, certamente tutt’altro che originale, dell’attore del muto che vede la propria carriera distrutta dall’avvento del sonoro, diviene in questo modo un racconto sospeso, che rivolge il proprio sguardo alla modernità. La pretesa fedeltà alla tecnica lascia infatti il posto al compromesso tra vecchio e nuovo - difficile pensare che il tipo di fotografia utilizzata, il rigore narrativo messo in scena, più tipico della Hollywood di almeno un decennio successivo alla fine degli anni Venti, o la grammatica stilistica della regia di Hazanavicius, siano frutto di una volontà di aderire sino in fondo al modello del film muto - lasciando che il film dialoghi con lo spettatore dei tempi di oggi, con un tipo di pubblico, cioè, dal quale ci sia aspetta una conoscenza del cinema tutt’altro che ingenua. Facendo sì, in questo modo, che la pellicola lasci trasparire tutta la propria insospettabile modernità. Come avviene nella splendida sequenza, posta a metà del film, nella quale il protagonista, attraverso un sogno premonitore, sperimenta la propria imminente rovina. Qui, il sonoro, che per la prima volta assume un carattere diegetico, si rivela in tutta la sua carica dirompente e violenta; comportandosi, cioè, esattamente come il più sofisticato degli effetti speciali. Ma parlando, in fondo, soltanto la lingua universale del cinema.

LLorenzo Rossi, Cineforum, n. 510, dicembre 2011

 

 

 

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