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Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 1 marzo 2012 – Scheda n. 17 (856)

 

 

 

 

Le donne del 6° piano

 

Titolo originale: Les femmes du 6ème étage

 

Regia: Philippe Le Guay

 

Sceneggiatura: Philippe Le Guay, Jérôme Tonnerre.

Fotografia: Jean-Claude Larrieu.

Montaggio: Monica Coleman. Musica: Jorge Arriagada.

 

Interpreti: Fabrice Luchini (Jean-Louis Joubert),

Sandrine Kiberlain (Suzanne Joubert),

Natalia Verbeke (María González), Carmen Maura (Concepción Ramírez),

Lola Dueñas (Carmen), Berta Ojea (Dolores Carbalán), Nuria Solé (Teresa).

 

Produzione: Vendôme Production. Distribuzione: Archibald.

Durata: 104’. Origine: Francia, 2010.

 

 

 

Philippe Le Guay

 

Parigino, nato nel 1956, Philippe Le Guay è figlio di un agente di cambio (e barone!), ha studiato cinema all’Institut des Hautes Études Cinématographiques, è stato docente di cinema alla Fémis che è la scuola di cinema di Parigi, ha realizzato il suo primo lungometraggio Les Deux Fragonard nel 1989, ha lavorato per la tv, ha girato con l’attore Fabrice Luchini Il costo della vita (2003) e questa commedia romantica Le donne del 6° piano.

Ecco qualche dichiarazione del regista: «Tutto è nato da un ricordo d’infanzia. I miei genitori avevano assunto una domestica spagnola che si chiamava Lourdes e io ho vissuto la mia infanzia in sua compagnia. Alla fine passavo più tempo con lei che con mia madre, tanto che quando iniziai a parlare, mischiavo il francese e lo spagnolo. Quando iniziai la scuola materna parlavo una sorta di lingua incomprensibile e dicevo le preghiere in spagnolo. Anche se non ho ricordi precisi di quei primi anni, mia madre me ne ha parlato e qualcosa di tutto questo è rimasto in me. Poi, è scoccata la scintilla durante un viaggio in Spagna, quando ho incontrato una donna che mi ha raccontato della sua vita a Parigi negli anni ’60. L’idea di girare un film su questa comunità di domestiche spagnole mi ha conquistato. Ho scritto una prima versione della sceneggiatura con Jérôme Tonnerre: era la storia di un adolescente trascurato dai genitori, che trova rifugio tra la domestiche del palazzo. Ma non siamo riusciti a portare avanti questa idea. Allora ho cambiato punto di vista, ho immaginato che fosse il padre a scoprire questo universo al sesto piano. Abbiamo ambientato la nostra storia nel 1962, alla fine della guerra di Algeria, nella Francia di De Gaulle. In fondo, si tratta di un’epoca recente, eppure sembra un’altra era, un altro mondo… Nel cinema c’è una grande tradizione di storie incentrate su domestiche e padroni. Anche nel teatro. Basti pensare a Molière o a Marivaux. Registi come Renoir, Guitry o Lubitsch hanno attinto a questa eredità. L’aspetto affascinante della presenza di domestici in una storia è l’attenzione che si presta ai codici, all’educazione, a quello che si dice e quello che non si dice. Questo presenta una serie di problemi di rappresentazione e quindi di messa in scena… La trappola da evitare a ogni costo era di cadere in una storia in cui il datore di lavoro si innamora della sua domestica. Per questo ho voluto che non ci fosse una donna sola ma molte. Jean-Louis Joubert scopre una comunità, un’altra cultura che fa irruzione nella sua vita. È turbato, preoccupato e infine sedotto. Il film propone la scoperta di un mondo sconosciuto eppure vicino. Adoro l’idea di vivere accanto alla stranezza. Basta un niente per uscire dal proprio mondo e scoprirne altri che si accompagnano, si sfiorano senza incrociarsi. È il concetto di “quarta dimensione” che appartiene alla fantascienza, ma che qui è trattato senza passare dalla fantasia. Nel film, Jean-Louis pronuncia una frase che riassume tutto: “Queste donne vivono sopra le nostre teste e non sappiamo nulla di loro.” Io e Jérôme Tonnerre abbiamo incontrato delle ex-domestiche, che avevano lavorato nel 16° arrondissement. Siamo anche andati alla chiesa spagnola di rue de la Pompe, dove abbiamo girato alcune scene. Lì c’è un personaggio fondamentale, Padre Chuecan, un prete che lavora lì dal 1947 e incarna la memoria di questa immigrazione. È un colosso dalla testa calva che ha 80 anni, e che ha accolto migliaia di spagnoli che venivano a cercare lavoro tramite la sua chiesa. La chiesa era un punto di raccolta culturale e sociale. Era il primo posto in cui si recavano le donne quando arrivavano a Parigi, ed era lì che si tenevano i colloqui di assunzione. Da questi incontri abbiamo tratto una storia umana straordinaria… Non volevo che il gruppo delle donne fosse un’entità corale, ma piuttosto una galleria di ritratti molto individuali. Prima ho pensato a una donna che fosse repubblicana, arrivata in Francia per fuggire dal regime di Franco. Poi ho voluto l’opposto, una bigotta, super-religiosa, che va in chiesa tutti i giorni e non fa che litigare con la repubblicana. A tenerle a bada, c’è senza dubbio un misto delle due, il personaggio interpretato da Carmen Maura, che calma le donne e mitiga i conflitti… Il film si basa su un’utopia: si vuole credere che le classi sociali siano porose e che il “borghese” possa trasferirsi al sesto piano, con le “domestiche”. Ma questa utopia viene respinta da entrambi i lati, dai borghesi che lo considerano uno scandalo, ma anche dalle domestiche...».

 

La critica

 

Il film descrive un risveglio, una storia di rinascita dei sensi e dello spirito, un viaggio di scoperta (di una donna, di una cultura) che è anche un cammino verso la verità, un percorso di conoscenza di sé (dei propri bisogni autentici). Jean-Louis Joubert è il tipico rappresentante della buona borghesia francese dei primi anni Sessanta: famiglia illustre, ottima posizione sociale (dirige una società finanziaria che ha ereditato dal padre), un appartamento sontuoso, una moglie perdigiorno, sfiancata dall’ozio, due rampolli insolenti e insopportabili. La sua esistenza grigia e monotona è ormai ridotta a un cumulo di abitudini letali (l’uovo alla coque cotto al minuto esatto per la prima colazione). E però Jean-Louis ha saputo conservare in sé un lato infantile che lo rende ancora curioso verso ciò che è nuovo e diverso. Sarà proprio questo suo candore naïf ad attrarlo, quasi suo malgrado, verso la giovinezza di Maria. Sarà l’amore che egli sente nascere in sé per la bella servetta, o più ancora, forse, il calore umano e la vitalità straripante delle cameriere spagnole che si annidano nel sottotetto del suo palazzo («Vivono in stanze minuscole, senza acqua calda. Eppure sono felici!»), a scuoterlo dal suo torpore, a liberarlo da timidezze e imbarazzi che lo rendevano estraneo a se stesso e al mondo, e a consentirgli di risvegliarsi ai sentimenti e alle emozioni. M. Joubert potrà allora interrogarsi sul senso della propria esistenza e immaginarla diversa dal vuoto languore in cui si è arenata. Da qui la necessità di intraprendere un’autentica traversata verso una vita nuova, al termine della quale l’eroe non potrà che rigettare il proprio passato e sottrarsi a quelle costrizioni sociali che lo condannavano a un’esistenza senza gioia. È vero: la tematica è usurata e la vicenda conserva qualcosa di prevedibile. Philippe Le Guay, ha scritto qualcuno, s’è adagiato su logori cliché e luoghi comuni. In realtà il regista ha scelto di utilizzare una stilizzazione folclorica per dare corpo alla dicotomia tra il mondo dell’alta borghesia parigina, così austera, ingessata e conformista, e l’universo rutilante e sensuale delle domestiche iberiche espatriate nella Ville Lumière, dove il ricorso allo stereotipo non si discosta nella sostanza da quello della tradizione comica (si pensi, che so, alle maschere stereotipe dell’impiegato tedesco o del funzionario sovietico in Uno, due, tre di Billy Wilder). C’è anche chi ha cercato tra le pieghe del racconto un messaggio politico che non era affatto nelle intenzioni del cineasta, ed è rimasto inevitabilmente deluso. E allora ha parlato di film elusivo, demagogico, superficiale. Ora, Le donne del 6° piano, sebbene metta in campo antagonismi di classe e irrida ai rituali borghesi, non intende essere un’opera realista, bensì una commedia di costume. Tant’è vero che lo stesso côté romantico, che pure conserva una sua rilevanza nella vicenda, rimane in qualche modo sacrificato (lo spettatore giungerà a chiedersi se Jean-Louis sia attratto da Maria o non piuttosto dal pittoresco gineceo che si è schiuso ai suoi occhi birichini). La stessa ricostruzione d’epoca – la Francia dell’era gollista ignara ancora degli sconquassi che di lì a poco avrebbe provocato il Maggio ’68 – conserva i colori smaltati di una favola lieve, opportunamente distanziata in un tempo felice da cui è bandita ogni asperità, e dove persino la caricatura grottesca di una ricca signora borghese paludata di presunzione e stoltezza è disegnata in punta di penna. Rispetto a Il costo della vita, la scrittura di Le Guay s’è qui irrobustita, ha acquistato in fluidità e sicurezza conservando quelle tonalità ilari e quello sguardo amabilmente ironico e indulgente che avevamo apprezzato nel film del 2003. La presenza, come protagonista, del rohmeriano Fabrice Luchini non deve trarre in inganno. Le Guay non mirava a realizzare una commedia di battute. Lo scintillio arguto dei dialoghi alla Guitry non è nelle sue corde. Piuttosto egli ha inteso privilegiare il lavoro sulla mimica dell’attore. Ha scommesso sulla sua ampia gamma espressiva costringendolo a rinunciare ai consueti istrionismi a favore di una recitazione tutta ritegno e sottigliezza (vedi la posa rigida e impacciata che M. Joubert esibisce nella scena del flamenco). La scommessa si è rivelata vincente.

NNicola Rossello, Cineforum, n. 505, giugno 2011

 

 

 

 

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