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Scheda pdf (172 KB)
Il concerto - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALES.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 11 novembre 2010 – Scheda n. 5 (817)

 

 

 

Il concerto

 

Titolo originale: Le Concert.

 

Regia: Radu Mihaileanu.

 

 Sceneggiatura: Radu Mihaileanu, Alain-Michel Blanc, Matthew Robbins. Fotografia: Laurent Dailland.

 Montaggio: Ludovich Troch. Musica: Armand Amar.

 

Interpreti: Aleksei Guskov (Andreï Filipov), Dmitri Nazarov (Sacha Grossman),

Mélanie Laurent (Anne-Marie Jacquet), François Berléand (Olivier Morne Duplessis),

Miou-Miou (Guylène de la Rivière), Valeri Barinov (Ivan Gavrilov),

Anna Kamenkova Pavlova (Irina Filipovna), Lionel Abelanski (Jean-Paul Carrère).

 

Produzione: Les Productions du Trésor. Distribuzione: BIM.

Durata: 120’. Origine: Francia, Romania, 2009.

 

 

 

Radu Mihaileanu

 

Regista rumeno ma attivo in Francia, Radu Mihaileanu, figlio di un giornalista comunista di religione ebraica, se n’è andato via dalla dittatura di Ceausescu nel 1980, si è iscritto a Parigi all’Idhec, la famosa scuola di cinema, ha girato il corto Les quatre saisons (1980), è stato notato dal grande Marco Ferreri che l’ha preso come aiuto regista per I Love You (1986) e per Come sono buoni i bianchi (1988). Del 1993 è il suo primo lungometraggio, Tradire, seguito poi da Train de vie (1998), grandissimo successo mondiale, storia di un piccolo villaggio ebreo dell’Europa dell’Est invaso dai nazisti i cui abitanti per sfuggire alla deportazione si travestono essi stessi da nazisti e da deportati e, su un treno di vita!, passano le linee belliche. Sono poi venuti Vai e vivrai (2005) e questo Il concerto.

Parla Mihaileanu: «Come in Train de vie, anche in questo film ritorna il tema della “impostura positiva”. È un tema che mi pervade, mio malgrado. Forse dipende dal fatto che mio padre, che si chiamava Buchman, durante la guerra dovette cambiare cognome per sopravvivere. Diventò Mihaileanu per affrontare il regime nazista e successivamente il regime stalinista. Anche se io ho tratto benefici dalla sua scelta, esiste in me un conflitto tra queste due identità. D’altronde, ho a lungo sofferto per il fatto di essere considerato un “estraneo” nel luogo dove mi trovo, che sia la Francia, la Romania o qualsiasi altro paese ovviamente. Oggi lo considero una ricchezza e sono felice di sentirmi ovunque partecipe e al tempo stesso estraneo. Probabilmente è per questo che all’inizio i miei personaggi hanno immense difficoltà e fingono di essere quello che non sono: per liberarsi da se stessi e cercare di gettare un ponte verso gli altri… Attraverso la metafora del concerto, il film parla dei rapporti fondamentali tra il singolo e la collettività. Mentre lavoravo al missaggio, ho capito che questa metafora è insita anche nella scelta stessa del concerto di Čajkovskij che occupa la parte finale del film. Alla base dell’attuale crisi sociale, c’è proprio il rapporto tra il singolo e la collettività. Abbiamo raggiunto il massimo grado di individualismo e gli esseri umani si sentono in una situazione precaria rispetto al mondo: vorrebbero mantenere i diritti fondamentali dell’individuo, tornando tuttavia a una società più solidale. Quel concerto di Čajkovskij non potrebbe essere armonioso se il violino e l’orchestra non fossero complementari. La crisi dimostra con forza l’importanza di questo binomio: il legame tra individuo e collettività deve essere molto solido e, per trovare l’armonia e il benessere, bisogna cercare di suonare il più possibile all’unisono… Questa armonia si forgia anche attraverso gli scambi tra russi, gitani e francesi che hanno tutti una visione del mondo molto diversa. È quello che oggi si chiama “dialogo interculturale”: in ogni società, compresa quella francese, grazie alle ondate migratorie, è molto presente la mescolanza delle culture, che arricchisce tutti, malgrado le difficoltà che comporta. È il nostro mondo di oggi e lo sarà ancora di più domani. Ed è quello che descrive il film, quando un gruppo di semi-barboni russi, gitani ed ebrei, originari di Mosca, approda a Parigi: è l’incontro tra una cultura slavo-orientale e una cultura occidentale, ricca e cartesiana. All’inizio lo shock è esplosivo: i “barbari” dell’est, di cui io faccio parte, arrivano nel paese dei “civilizzati”, che temono che i loro diritti acquisiti siano minacciati e che le regole che hanno definito non vengano rispettate. Ma alla fine, malgrado le tensioni, da questo incontro scaturiranno bellezza e luce. E il concerto esprime l’armonia che nasce da questo scontro tra culture… L’umorismo che preferisco è quello in reazione alla sofferenza e alle difficoltà. Per me, l’ironia è un’arma gioiosa e intelligente, una ginnastica della mente, contro la barbarie e la morte, un modo per spezzare la tragedia che ne è la sorella gemella. Di fatto, nel film, l’umorismo deriva da una ferita che si è aperta trent’anni prima, nell’Unione Sovietica di Brežnev. A quell’epoca, i personaggi sono stati umiliati e messi al tappeto. La loro volontà di rialzarsi e di riconquistare la dignità si esplicita anche attraverso l’umorismo. Al di là della loro tragedia, i protagonisti del Concerto trovano la forza di portare fino in fondo i loro sogni, grazie all’ironia. A mio parere, è la più bella espressione dell’energia vitale. Anche all’interno della loro società, i personaggi russi del film stonavano un po’, vivevano ai margini. Al loro arrivo in Francia, la contrapposizione è ancora più sorprendente e suscita dei contrasti che trovo molto divertenti. Per questo ho voluto apporre qualche “tocco di colore” esotico, caratteristico di quest’orda di slavi, nell’universo della società francese, che appare monotono e assopito quando è visto da una certa distanza. Lo ritroviamo anche nel contrasto tra le ambientazioni in Russia e in Francia. Abbiamo cercato di sviluppare un trattamento diverso delle due società attraverso le scenografie, i costumi, le luci, i suoni e la messa in scena. In Russia, gli ambienti e i costumi sono al tempo stesso colorati e “avvizziti”, antiquati, le linee sono spesso caotiche, mentre Parigi è più luminosa, spesso dorata, piena di contrasti e raffigurata con tratti rettilinei, con quadrati. Per esempio, quando i russi telefonano al direttore del Théâtre du Châtelet, sono in uno squallido sgabuzzino, dagli arredi e dai tratti confusi, situato nel seminterrato del Bolshoi, in un ambiente acustico rumoroso, mentre l’ufficio del loro interlocutore parigino è magnificamente arredato, quasi bianco, pulito, silenzioso e perfettamente rettilineo. Mentre i russi sono nell’imperfezione totale, il francese tende verso una certa perfezione. Inoltre, i russi sono spesso filmati con la macchina da presa a spalla, perché sono in costante movimento, sono “inquadrati male”, mentre Duplessis e la sua squadra sono più che altro filmati in modo simmetrico, con la macchina da presa fissa o che fa dei movimenti controllati. Mi piace anche molto la scena del ristorante tra Andreï e Anne-Marie. Il contrasto tra il loro abbigliamento mi ricorda molto il mio arrivo in Francia: Andreï indossa un vestito nuovo, ma che sembra troppo grande e di altri tempi, pur essendo presentabile, dal momento che vuole essere all’altezza della cena; Anne-Marie indossa un grazioso chemisier color argento, semplice, moderno, sobrio. I suoi gioielli discreti brillano come i suoi occhi e le luci che li circondano, internamente ed esternamente. Solo Andreï sembra un inserto rappezzato nella Ville Lumière».

 

 

La critica

 

Si parte con Mozart e si finisce in gloria con il Concerto in re maggiore n. 35 per violino e orchestra di Čajkovskij in 12 minuti anziché 22, ma non importa: nella straordinaria ripresa musicale c’è tutto il pathos accumulato nella storia che si trasferisce da Mosca a Parigi. Quella di Andreï Filipov, ex direttore d’orchestra del Bolshoi ridotto da Breznev a uomo delle pulizie per aver difeso i musicisti ebrei, che si prende la rivincita: intercettato un fax d’invito per suonare allo Châtelet di Parigi, decide di radunare i vecchi musicisti e presentarsi come Bolshoi. Come in Quella sporca dozzina, Full Monty, Vogliamo vivere (ogni riferimento a Lubitsch non è casuale) è il classico gruppo improbabile che s’imbarca nella mission impossible, scavalcando salti logici in nome della verosimiglianza del cinema. Ecco i musici, raminghi nella Russia capitalista dell’amico Putin, a guidare ambulanze o suonare nelle feste trash della new mafia o nei film porno, ricompattarsi nel sogno di eseguire ‘quel’ concerto di Čajkovskij che esprime l’animo slavo e cui partecipa come violino solista una ragazza che è legata col cordone ombelicale al racconto. Se il concerto, dopo mille peripezie, inizia disarmonico, sarà lei a infondere l’armonia per finire in trionfo musicale, civile, politico. Il regista franco-romeno Radu Mihaileanu, che aveva accusato Benigni di essersi ispirato a Train de vie, ora si ispira clamorosamente alla geniale Prova d’orchestra di Fellini, un capolavoro su come la musica diventi armonia per motivi imperscrutabili. E firma un bellissimo e furbissimo film in cui se mai convivono fin troppi elementi, dall’antisemitismo d’epoca non sospetta alla visione della Mosca di oggi. La satira della Russia è fantastica non solo nei costumi volgari dei ricchi che ricattano col potere degli oleodotti di gas mentre i vecchi continuano col patetico contrabbando di caviale e le assise comuniste, ma nell’amoralità diffusa con quei 55 passaporti falsificati all’istante davanti al check in dell’aeroporto. A vincere è comunque Čajkovskij, l’altra faccia dell’amore, per dirla con Ken Russell. La ricetta di mixare nostalgie e lacrime, musica e sorrisi vince su tutti i fronti: anche in Italia Le concert sarà un bestseller col cuore in mano. E se il primo tempo vince sul secondo dove il tocco melò rischia overdose di violino, appunto, si tratta di un film dal respiro umano e narrativo raro, con attori magnifici ed effetti specialissimi dell’orchestra di Budapest e della violinista rumena Nemtanu che ‘doppiano’ Čajkovskij.

MMaurizio Porro, Il Corriere della Sera, 5 febbraio 2010

 

 

 

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