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La strada di Levi - Scheda del film

CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA


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in collaborazione con:

CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

PREMIO GRINZANE CINEMA

Giovedì 4 ottobre 2007 – scheda n. 1 (731)

 

La strada di Levi

 

Regia: Davide Ferrario.

Sceneggiatura: Davide Ferrario e Marco Belpoliti, dal libro di Primo Levi La tregua.

Fotografia: Gherardo Gossi, Massimiliano Trevis. Montaggio: Claudio Cormio.

Musica: Daniele Sepe. Suono: Gianni Sardo. Voce narrante: Umberto Orsini.

Produzione: Davide Ferrario, Rossofuoco, Rai Cinema. Distribuzione: 01.

Durata: 91’. Origine: Italia, 2006.

 

 

Il regista


Davide Ferrario è ben conosciuto al Cineforum, è stato anche qui a presentare un suo film. Classe 1956, cresciuto a Bergamo, adesso torinese, ha fatto il critico, il distributore, l’organizzatore, poi il regista. Esordio: La fine della notte (1990), poi il documentario Lontano da Roma (1991) sull'allora nascente fenomeno della Lega. Ferrario va dalla finzione ai documentari (più un romanzo, Dissolvenza al nero, su Orson Welles). Altri film: Anime fiammeggianti (1994), il doc Materiale resistente tra rock e guerra partigiana, Tutti giù per terra (1997), il doc Sul 45° parallelo, poi I figli di Annibale con Abatantuono (1998) e il discusso Guardami (1999). Del 2004 è il suo film di maggior successo, Dopo mezzanotte, seguito da Se devo essere sincera con Luciana Littizzetto, quindi La strada di Levi.

Qualche dichiarazione di Ferrario: «L’idea, affascinante, è stata di Marco Belpoliti. Per prima cosa, cartina e libro alla mano, abbiamo organizzato un viaggio di sopralluogo da Auschwitz verso Est che ci è servito per maturare il senso del film e capire che potevamo parlare dell’Europa di oggi usando le parole di Levi, ancora molto attuali: le sue parole e la sua scrittura, non la sua immagine che mostriamo solo all’inizio e alla fine. Non abbiamo avvertito il problema di trovare immagini per le parole di Levi o viceversa. Le une e le altre erano due strade, due binari paralleli che correvano insieme, i pensieri di Levi intercettavano le nostre sensazioni… Levi è uno scrittore che scrive da chimico, non infiora quel che dice, ha un approccio analitico e una levità che abbiamo cercato di mantenere pur affrontando argomenti penosi come i campi di sterminio, la fine del comunismo, Chernobyl… Eravamo partiti credendo di trovare tutto molto cambiato, invece ci è sembrato tutto molto uguale, abbiamo scoperto una terra, la grande madre Russia, che c’era prima del comunismo e sembra poter esserci per sempre… Certo, ci sono delle cose in più, come Chernobyl, che si trova a 30 chilometri da uno dei paesi dove passò Levi, che attraversò proprio la zona della nube radioattiva. Levi scrisse dell’incidente su La Stampa, quindi passare da Chernobyl ci stava sia dal punto di vista geografico sia da quello tematico».

 

La critica


Nel lungo viaggio che da Auschwitz lo riportò a casa, a Torino, Primo Levi attraversò nel 1945 otto paesi: Polonia, Urss, Romania, Ungheria, Cecoslovacchia, Austria, Germania e finalmente Italia. Rifacendo oggi quel percorso, Davide Ferrario e Marco Belpoliti ne toccano diversi in più: l'Urss si è frantumata in Ucraina, Bielorussia e Moldavia, la Cecoslovacchia si è divisa fra Repubblica Ceca e Slovacchia. Già queste differenze geopolitiche danno il senso della vertigine storica nella quale La strada di Levi ci immerge. Non solo. Il film inizia in un altro paese: gli Stati Uniti, Ground Zero, lo squarcio che sfregia New York là dove c'erano le Twin Towers. Perché, dicono gli autori, anche noi abbiamo vissuto una «tregua», che ora si è rotta, e siamo di nuovo in guerra. La "tregua" di cui parlava Primo Levi [...] era quell'irripetibile limbo della storia in cui la guerra stava finendo, o era da poco finita, e l'Europa era ancora un territorio devastato ma paradossalmente aperto, in cui gli schieramenti del dopoguerra non si erano ancora stabilizzati: la tregua fra guerra "calda" e guerra fredda. Ferrario e Belpoliti parlano di una tregua iniziata con la caduta del Muro di Berlino e finita l'11 settembre 2001: quasi 12 anni, stavolta, in cui però l'Europa dell'Est ha cambiato volto. Ripercorrere oggi la «strada di Levi» significa usare le parole e i ricordi del grande scrittore per capire in che razza di Europa viviamo oggi. La strada di Levi è un road-movie, un film di viaggio, in forma di documentario. Marco Belpoliti ha avuto l'idea (è uno studioso di letteratura, curatore delle opere di Levi per Einaudi). Davide Ferrario firma la regia ed è responsabile della sua forma cinematografica: e come sempre nell'opera di questo cineasta venuto dalla critica e dal lavoro culturale "sul campo", finzione e documentario si fondono fino a essere una cosa sola. Il film è bellissimo e, per chi scrive, ha un unico difetto: è troppo breve. In 92' alcuni passaggi geografici - la brevissima puntata in Slovacchia, la visione della casa natale di Hitler in Austria - rimangono appena accennati. Vorremmo vedere di più, saperne di più, incontrare più gente: imploriamo Ferrario di montare una versione di 5-6 ore per il dvd! Scherzi a parte, le pagine di Levi lette fuori campo dalla bellissima voce di Umberto Orsini diventano la traccia, la guida per cercare qualcosa di diverso da sé. La macchina da presa trova paralleli (è bello pensare che quelle baracche in una squallida periferia polacca siano le stesse dove hanno dormito Levi e i suoi compagni di odissea: magari non è così, ma non importa), ma soprattutto cerca l'oggi, la mutazione che due «tregue» - e 60 anni - hanno inflitto al paesaggio. Con l'aiuto del cinema, magari: Nowa Huta, Polonia, ridiventa la città dell'Uomo di marmo, il «miracolo socialista» dello stakanovismo ed è giusto che sia il regista di quell'incredibile film, Andrzej Wajda, a farci da cicerone. In Romania, invece, troviamo gli italiani: imprenditori di un tempo (la ditta di ceramiche Zuliani, impiantata subito dopo la guerra e sopravvissuta per tutti gli anni di Ceausescu) e di oggi, che vanno laggiù a creare fabbriche per manodopera sottopagata. Ma dove il film si impenna, è negli incontri casuali: la visione di Prypjat', città ucraina fantasma a due passi da Cernobyl, e soprattutto l'avventura bielorussa, dove Ferrario e la sua troupe si imbattono nell'ultimo pezzo di Urss ancora vivente. Mentre realizzano un'intervista, un funzionario di polizia li blocca e li porta alla centrale; ma come spesso accadeva anche nell'Urss imbalsamata di Breznev, basta fingere di fare un'intervista a un kolchoziano in cui si magnificano i destini della collettivizzazione, e si finisce tutti a bere vodka e a scambiarsi brindisi alla «druzhba mezhdu narodami», all'amicizia fra i popoli. Forse è li che La strada di Levi vive fino in fondo la propria vertigine. Altrove, l'Europa sta diventando una, ed è un'Europa di monete, di traffici, di immigrati extracomunitari, di «griffe» e di McDonald's; in Bielorussia, per colpa di un piccolo tiranno come Lukashenko, l'Europa si confronta con ciò che era, e scopre che le tradizioni - anche tragiche - hanno un valore pesante e difficile da scrostare. Come dice Ferrario, «con la globalizzazione le persone possono essere più libere di spostarsi, ma dove vanno se non appartengono più a nessun posto?». In questo concetto, se vogliamo, rientra dalla finestra un tema che appare quasi rimosso dal film: l'identità ebrea. Quello di Ferrario e di Belpoliti non è un viaggio alla ricerca degli ebrei, Auschwitz è un punto di partenza e risuona, strada facendo, solo nelle parole di Levi. Ma forse anche il grande chimico-scrittore, una volta tornato a Torino, scoprì che la libertà non bastava se non si apparteneva più a nessun posto. Forse a questo pensava quando si buttò dalle scale nel 1987, per andarsene altrove. Chissà.

Alberto Crespi, L'Unità, 20 ottobre 2006


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