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You, the Living - Scheda del film

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in collaborazione con:

 

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PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 9 aprile 2009 – Scheda n. 24 (782)

 

You, the Living

 

Regia e sceneggiatura: Roy Andersson

 

Titolo originale: Du Levande

 

Fotografia: Gustav Danielsson. Montaggio: Anna Märta Waern. Musica: Benny Andersson.

Interpreti: Jessica Lundberg (Anna), Elisabet Helander (Mia),

Björn Englund (suonatore di basso tuba), Leif Larsson (carpentiere),

Ollie Olson (consulente), Kemal Sener (barbiere), Håkan Angser (psichiatra),

Gunnar Ivarsson (uomo d’affari), Jörgen Nohall (Uffe), Jan Vikbladh (fan).

Produzione: Roy Andersson Filmproduktion. Distribuzione: Lady Film.

Durata: 94’. Origine: Svezia, 2007.

 

Roy Andersson

 

Nato a Gothenburg, in Svezia, nel 1943, Roy Andersson è uno dei più originali registi europei. Ha un modo di fare cinema come non ce l’ha nessun altro; ha un modo di guardare l’esistenza, le sventure e le commedie umane come nessun altro regista è capace di fare. Il suo stile è caratterizzato da piani lunghi, da inquadrature totali, da un tono assurdo e grottesco, unito a una profonda comprensione umana. Ha studiato alla scuola di cinema svedese, poi ha cominciato a lavorare nella pubblicità, applicando anche in questo campo le sue “ricette” stravaganti. Il suo primo film, Una storia d’amore svedese, del 1969, ebbe molto successo. Il secondo, invece, Gilliap, del 1975, fu un fiasco colossale al punto che Andersson dovette aspettare 25 anni prima di dirigere un altro film. Nel 1981 fondò una sua compagnia di produzione, la Studio 24, e cominciò a lavorare per il ministero della salute, per il quale girò Something Happened, sull’AIDS, e altri corti molto provocatori, come World of Glory, che gli procurarono ulteriori guai. Ritornò finalmente al successo critico internazionale con il magnifico Canzoni del secondo piano, presentato e premiato a Cannes nel 2000. Du Levande, You the Living, è il suo più recente lavoro, anch’esso presentato al Festival di Cannes nel 2077. Chi volesse avere un’idea della carriera e dei lavori di Roy Andersson può andare sul sito http://www.royandersson.com

Sentiamo qualche sua dichiarazione su You the Living: «Potrei dire che il mio film è una tragicommedia. Come Stanlio e Ollio, ad esempio, che sono molto comici ma tristi allo stesso tempo. Perché la vita è una tragicommedia. Si tratta, soprattutto, di un film sulla vulnerabilità degli esseri umani. Non dovremmo umiliarci a vicenda, ma a volte la gente è costretta a umiliare se stessa. Sono sempre molto triste quando vedo questa tendenza recente. La televisione mostra spettacoli come i reality show: è molto popolare umiliare le persone, ma è brutto da vedere... La musica gioca un ruolo chiave nei miei film. Mi piace lo stile jazz di New Orleans, che suonavo col trombone, da ragazzo. Pensavo di doverlo usare in uno dei miei film, e questa è stata la volta buona. All’inizio del film, c’è la musica composta da Benny Andersson (degli ABBA), che ha le stesse radici di quella del mio film precedente, Canzoni del secondo piano. Ho scelto inoltre la musica accademica tedesca e una canzone romantica popolare degli anni ’30, adattata per chitarra elettrica solista e per una marcia... Avevo girato 50 scene con i miei temi ricorrenti. È stato difficile scegliere quelle essenziali e metterle insieme secondo un certo ordine. Solo l’ultima sequenza è stata messa lì volontariamente, perché volevo che la gente guardasse oltre. Per quanto riguarda le altre, non c’era un ordine. Volevo darglielo, ma poi ho deciso solo al tavolo di montaggio... Utilizzo una scelta precisa per il colore, quasi monocromatico, virato soprattutto sui grigi. Non ho girato in bianco e nero perché usare il bianco e nero è troppo facile. Gli spettatori tendono subito a pensare che stai facendo arte, e la cosa non mi piace. Ho iniziato a usare il colore negli anni ’80, perché dopo 15 anni mi ero stancato di fare film. Non mi sentivo ispirato dallo stile realistico che usavo. Fortunatamente, ho trovato una via d’uscita. Ho iniziato a usare l’astrazione, che è ispirata anche dalla pittura, soprattutto quella del periodo tra le due guerre negli anni ’30, in Germania. Il mio pittore preferito è l’espressionista tedesco Otto Dix. Usando l’astrazione, mi sono sentito subito libero. Con questo film ho fatto la stessa esperienza, perché non avrei mai pensato prima di poter creare sogni. Mi ha dato la sensazione meravigliosa di libertà, ancora una volta. Nei sogni, tutto è concesso, tutto è possibile. Non penso molto al pubblico quando faccio un film. È una questione delicata, perché si vorrebbe sempre un pubblico ampio. Allo stesso tempo, però, non si possono fare congetture su quale sia il gusto comune col quale si possa raggiungere il pubblico più grande possibile. Non mi piace molto pensare al gusto comune. Spero che, facendo dei film come dico io, essi possano piacere anche ad altre persone... Non vado al cinema. Io faccio film e non guardo quelli degli altri, perché non li voglio avere in testa. Quando ero giovane, essere ispirato dagli altri non era un problema, ma oggi è diverso. Preferisco l’ispirazione dalla pittura, dalla poesia e dalla musica».

 

La critica

 

Un nugolo di aerei passa alto nel cielo. Verso le loro ali scure hanno appena alzato gli sguardi gli uomini e le donne di Stoccolma. Così finisce You the Living: su un’immagine evocata all’inizio, nell’incubo di uno dei suoi molti protagonisti. Ripreso con un’inquadratura fissa, l’uomo si sveglia all’improvviso, impaurito dal sogno realistico di un bombardamento. Subito la regia lo abbandona alla sua angoscia, lasciandocene però un’eco che attraversa tutto il piccolo, grande film di Roy Andersson. Ai ‘viventi’, e alla fatica con cui pagano il loro stare al mondo, si rivolge l’occhio scrutatore del sessantaquattrenne autore svedese. Lo fa isolandoli, mettendoli uno a uno al centro dell’universo. Il film è costruito infatti come somma di storie e inquadrature ‘minime’ e ferme. Ogni inquadratura è appunto un universo a sé, con protagonisti assoluti, nel senso che la loro microstoria accade tutta dentro un luogo circoscritto, finito: una camera da letto, l’angolo di un giardino pubblico, lo studio di uno psichiatra, una birreria, l’androne di un condominio, il negozio di un barbiere. Sono fisse, dunque, le inquadrature di You the Living, come accadeva quando il cinema era ancora bambino. O meglio, si muovono solo al loro interno: un uomo viene avanti, una donna si mostra alle sue spalle, un terzo scompare alla vista. A questi movimenti materiali se ne aggiungono poi altri, fatti di sguardi tra i protagonisti e insieme di rapporti tra i diversi piani d’attenzione dell’immagine. Ogni inquadratura, infatti, ne ha almeno due, di questi piani, e tra di essi corrono gli occhi dello spettatore. In una delle molte microstorie, per esempio, in primo piano c’è un impiegato intento al suo lavoro. Più in fondo, sulla destra dello schermo, una porta spalancata scopre un secondo impiegato. ‘Mi hai chiamato?’, gli domanda il primo. Il collega gli risponde di no, e che forse è stato un altro. L’impiegato rifà la domanda a questo, che ora si intravede dietro una seconda porta, sulla sinistra. La sua risposta è no, di nuovo. Forse, suggerisce, lo ha chiamato un altro ancora, e subito gli si rivolge.

Al terzo no, i nostri occhi tornano sull’uomo in primo piano. E sul suo volto, dopo questo ‘movimento immoto’, scorgono il riflesso di una delusione muta, come se l’impiegato una volta di più conoscesse una solitudine antica. Così racconta You the Living: andando a cercare i suoi personaggi nei frammenti del loro tempo quotidiano, e in ognuno di questi frammenti scoprendo un riflesso della loro condizione di viventi. Per lo più è tragica la luce che ne viene, ma accade spesso che sia allo stesso tempo comica. D’altra parte, che cos’è il comico, se non il tragico capovolto? E che cosa allevia di più la fatica di stare al mondo, se non l’arte di opporre alla sua realtà greve l’ ‘invece’ leggero di una risata? ‘Nessuno mi capisce’, si lamenta con un postino un signore piccolo e grasso. Nella microstoria precedente s’era presentato alla porta della sua bella e le aveva teso un mazzo di fiori. Fulminea, lei aveva richiuso con violenza, e i fiori erano rimasti tra lo stipite e il battente. In platea s’era pianto, certo, ma dal ridere. Ora, in quest’altra microstoria, il pover’uomo tenta di farsi ascoltare almeno dal postino. ‘Nessuno mi capisce’, gli dice appunto. ‘Capisco’, gli risponde quello crudele e distratto, e intanto lo scosta per continuare il suo lavoro. Andersson certo la conosce e la pratica, l’arte necessaria e difficile della leggerezza comica. Lo fa ridendo insieme con i suoi personaggi, mai ridendo di loro. Anzi, ne assume su di sé le solitudini, le paure, i desideri impossibili. Come loro e con loro soffre la più radicale delle sofferenze umane: quella del vuoto che ci lascia nell’anima l’interminabile bisogno d’essere riconosciuti e ascoltati, desiderati in assoluto. E poi, aggiunge, accade che tutto – solitudini, paure, desideri, mazzi di fiori e crudeltà distratte – di colpo si interrompa, senza che una meta sia stata raggiunta. A quel punto, neppure il capovolgimento comico viene più in soccorso. Così trascorriamo il nostro tempo, secondo il tragico, leggero, geniale Roy Andersson: come avventori d’una birreria, ognuno muto al proprio tavolo, chiuso e fermo dentro un universo stretto. A un certo punto, il proprietario suona la sua campanella di bronzo e li avvisa: ‘Fate l'ultima ordinazione’. Solo adesso vincono il loro torpore. Tutti insieme si alzano, e si avvicinano al banco. Sulle loro teste sentono il volo di grandi ali nere. Forse, avrebbero fatto meglio ad ascoltarne prima il rombo greve.

RRoberto Escobar, Il sole 24 Ore, 28 ottobre 2007

 

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